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2. A chi interessa lo "sviluppo"?

3 gennaio 2009

Penso che questa development cooperation non serva a niente – almeno fatta in questo modo, dall’alto.

Mercato tra un cavalcavia e l'altro
È noto che a “certi” stati non glie ne frega niente di “svilupparsi” e di sollevare le masse dall’ignoranza, ma vogliano solo i soldi della cooperazione, per progetti che poi non si impegnano a sostenere e i cui benefici non riescono a propagarsi alla maggioranza della popolazione.

Tuttavia, sono furbi abbastanza per mantenere il giusto equilibrio tra l'implementazione di progetti governativi - di fatto di tipo per lo più assistenzialistico - e il mantenere le masse in una situazione di dipendenzaprecarietà, in modo da alimentare e giustificare all'infinito il bisogno di fondi e supporto da parte dei paesi più sviluppati

Non è un segreto per gli egiziani che l’obiettivo di Mubarak sia di dare da mangiare a tutti, ma non abbastanza per permettergli di superare quella soglia di soddisfazione che dai bisogni primari porta a potersi occupare dei bisogni secondari, come cultura, educazione, qualità della vita, rispetto, fino a senso dell'armonia e bellezza

Ebbene sì, ricomincio con la bellezza, e ne rivendico il suo ruolo nel percorso di arricchimento spirituale dell’individuo, nello sviluppo della sua sensibilità e di valori…e se vi sembra stia parlando di frivolezze, spero che queste foto seppur poche riescano a instillare un'idea di atmosfera, per meglio comprendere qual è il livello di bruttezza/bellezza a cui mi riferisco...). 

Centro: palazzo antico "incorniciato"
E se poi vogliamo parlare di bisogni secondari, parliamo del fatto che per fare ristrutturare i palazzi stupendi e fatiscenti del centro aspettano i soldi francesi, giapponesi o italiani, perché a loro, a quelli in alto, non glie ne frega nulla di preservare la loro cultura e architettura. Il teatro dell'Opera in centro è ancora carbonizzato, e il progetto del nuovo è stato curato totalmente dai giapponesi. 

Grattacieli sul Nilo con smog
I soldi non li vanno a chiedere ai rozzi e grassi nuovi ricchi, quelli che dicono che il centro è “vecchio”, e Dahab “primitiva”, ma a cui piacciono i grattacieli sul Nilo e le scenografie posticce dei resort di Sharm El Sheik, perchè sono “moderni”; per cui la massima aspirazione è il lusso (innumerevoli sono le campagne pubblicitarie che, sotto vari aspetti, utilizzano la parola “luxury”: non ho mai visto in  Europa questo valore veicolato tanto esplicitamente e tanto spesso!); quelli per cui distinguersi dalle masse povere coincide con ostentazione di arroganza, onnipotenza e spreco – ovvero quell’atto di compiaciuta leggerezza che ci fa sentire tanto spensierati e potenti, con cui buttiamo, buttiamo per terra, buttiamo via, perché tanto se ne può avere ancora, se ne può comprare uno nuovo (magari in Europa o negli Stati Uniti), e c’è sempre qualcun’altro che pulirà; quelli per cui a 18 anni i ragazzi di buona famiglia ricevono la loro macchina, come fanno gli americani, (e ovviamente non un utilitaria, perché la macchina piccola non sta bene).

Questo per chiudere il cerchio di nuovo, e confermare che questo benedetto sviluppo (e a cosa serve l'inserimento di questi nuovi indici compositi per tenere conto dello sviluppo umano…?), volontariamente o no, è perentoriamente e prettamente economico, allargando non solo - ovviamente - le frontiere del nostro commercio e profitto, ma soprattutto esportando le parti peggiori della nostra cultura del consumo!

Certo la situazione internazionale sta dimostrando come gli equilibri non siano già più gli stessi. Non siamo più gli unici a comandare, e anche in tema di cooperazione internazionale non siamo più soli. Ci sono i cinesi. 

(Si legga anche Gabbie dorate)

Sotto il cavalcavia

1. L'uomo della frutta

2 gennaio 2009
In tutto questo tempo non ho ancora mai parlato dell’uomo della frutta.

Una donna occidentale che abita da sola, oltre a rappresentare un’attrazione misteriosa e una sfida intrigante per quanto riguarda la sua vita privata – e la possibilità di inserirvisi a vario titolo – è anche una fonte di interesse commerciale.

In una delle tante misteriose scampanellate ricevute alle ore più bizzarre, una volte mi sono ritrovata davanti alla porta l’uomo della frutta. Ha un botteghino giusto dietro l’angolo della mia strada e conosce i miei bauab (sicuramente sono stati loro a spedirmelo…).

Nonostante le mie prime esitazioni, questi egiziani sanno lusingare e a loro modo conquistarti. Per sapendo che mi sarebbe stato riservato un prezzo maggiorato di almeno il doppio (comunque poco per i nostri standard), mi sono fatta convincere dalla comodità di avere recapitate frutta e verdura fresca direttamente a casa quando più ne avessi voglia.

Ovviamente non potevo immaginare che questo volesse dire scampanellate quotidiane, in quell’orario in cui esausta dal lavoro e dal frastuono, dopo la doccia, ho solo voglia di raccogliermi in casa con me stessa, i miei libri e le mie coperte, e non parlare con nessuno, tantomeno gesticolare in arabo! (Quell’orario per me inizia alle 19.30-20.00, quando torno dalla palestra…ma le scampanellate potevano giungere anche dopo le 21.30 e passa…Infine ho imparato a ignorarle).

L’omino mi si presenta con un cestone pieno di frutta e verdura che basta per una famiglia per una settimana. Prima che io riesca a dire qualcosa, si fionda dentro casa e appoggia il cestone (non proprio pulito) sul tavolo in salotto e comincia a tirare fuori tutto… A poco serve indicare con precisione quali pezzi si desiderano, perché – pena l’esaurimento per stare a contrattare tre ore – sarai comunque costretta a comprarne molti di più di quelli che ti servono.

Questo è quello che è successo le prime due volte, perché a lui non mi andava di trattarlo male, in fin dei conti mi pareva un uomo per bene. Alla terza però sono diventata molto più irremovibile. Il fatto purtroppo è che per averla vinta non è sufficiente ripetere fermamente…ma si deve arrivare a urlare, altrimenti non la capiscono!

Addirittura una volta, nell’intento di mostrarmi il succulento interno di un frutto, senza chiedere niente si è intrufolato nella mia cucina (in cucina!), e con le mani nere ha cominciato a toccare dappertutto per cercare un coltello…cassetti, ripiano, e ha pure preso un piatto… Io ho avuto giusto il tempo di precipitarmigli dietro urlando di non toccare nulla e di uscire subito di lì! 

Ho capito perché loro urlano tutto il tempo. La gentilezza non paga, e specialmente da parte di una donna occidentale. Se li si tratta in maniera educata e gentile non otterrai mai ciò che vuoi: ti raggireranno come vogliono e finirai calpestata. E infatti ho dovuto neutralizzare, anzi, indurire la mia espressione, eliminare completamente il sorriso, parlare in modo secco, e troncare la conversazione urlando. Dopo un anno qui, non sorrido praticamente più quando parlo con le persone. Solo che per me questo è altamente snaturante, e soprattutto stancante; è faticoso non sorridere ed essere autoritaria, non ci sono abituata!

Ricordo sempre quando, appena arrivata, sono rimasta del tutto stupita dal fare di Sara, che avevo trovato aggressivo e autoritario… “Colonialista” e poco rispettoso, avevo pensato. Null’affatto. Il più delle volte si è dimostrato essere l’unico modo. 

1. L'oasi di Siwa

Giovedì 2 ottobre 2008

Sara è la terza volta che torna a Siwa nel giro di un anno e dice che già l’ha vista cambiare molto. 

I ragazzi si perdono nel rombo di motociclette cinesi, mentre poco più di anno fa si girava solo in asino. Ora cominciano ad esserci varie macchine, e la cosa peggiore è che suonano il clacson! La piazza centrale, dove i negozi erano solo un paio, stanno riempendosi di insegne invadenti che rovinano tutta l'atmosfera visiva, enormi e dai colori sgargianti, tipo quelle delle compagnie di telecomunicazioni. Il personale locale – tutto rigorosamente maschile – è gentilissimo. E sono bellissimi!


Venerdì 3 ottobre 2008

Abbiamo passato tutto il giorno con Youssef, un ragazzino di quindici anni, nel suo taxi: un carretto trainato da Al Pacino, il suo asinoAbbiamo visto due templi, più il cosiddetto “Bagno di Cleopatra”. La sera siamo andati a Fatna Island, dove abbiamo visto il tramonto. Palmeti, olivi, silenzio, solo il ragliare degli asini.
I carretti sono portati solo dagli uomini, dai bambini o dalle bambine. Le donne sposate siedono nel carretto, ma devono sempre essere accompagnate, se non da un uomo, per lo meno dai bambini. Si tirano giù il velo del niquab nascondendo anche gli occhi e si ricoprono dalla testa ai piedi con il loro telo tradizionale blu dai ricami sui toni dell’arancione.

Non ho visto alcun viso di donna sopra i diciotto - vent’anni. Da quando si sposano le loro fattezze scompaiono interamente dalla comunità. Il loro viso continua ad esistere solo per le altre donne e per i pochi uomini che compongono il nucleo familiare. Per la strada, si riconoscono tra loro dalle scarpe, o dall’andatura, o dai bambini che le accompagnano.

Dal lieve movimento della loro testa, io e Sara vedevamo che da sotto il velo nero, sedute immobili sul carretto, il loro sguardo ci seguiva.

Sabato 4 ottobre 2008

Quanto sono belli questi bimbi.

Stamattina avevo poco appetito; una svogliatezza nel mangiare che si è poi trasformata in un tappo alla bocca dello stomaco e in una sensazione di sazietà immediata dopo appena due cucchiaiate di zuppa a colazione, che sfiorava la nausea.


4. Vita da Bauab

Lunedì 22 settembre 2008

Attif è più giovane di me, molto più basso di me, ed è completamente analfabeta. E’ uno dei miei due bauab, i portieri.

I bauab sono una figura importantissima nella società cairota. Una vera e propria istituzione. Passano la giornata seduti davanti al palazzo di cui si prendono cura seguendo il viavai dei marciapiedi. Un’informazione fa il giro del quartiere in un secondo ribalzando da un bauab all’altro, da portone a portone. Sanno tutto di tutti. Sanno chi entra e chi esce, non gli sfugge nessuna faccia nuova, né a quale piano va e quanto si intrattiene (rendendo rischiosa qualsivoglia relazione non suggellata dalla legge, e quindi vietata...) [Si veda In flagrante reato]

Dormono nel sottoscala. I miei non hanno né rete né materasso e dormono su due coperte di lana sdrucite e sudici cuscini senza federa. La mattina alle 8, quando si scende per andare al lavoro, l’uscio e l’interno degli ascensori sono già stati lavati. Lungo i marciapiedi bauab e autisti lavano e lucidano le macchine dei padroni.

Aiutano a portare la spesa, pagano le bollette, fanno piccoli lavori di riparazione domestica, ovviamente compensati da bakhshish, mance.

Attif sa leggere i numeri (solo quelli arabi però), ma a fatica, e oggi mi ha detto “saba”, sette, mentre faceva il segno otto con le mani.

Potrebbe essere considerato irriverente, ma in una maniera volontaria, ironica e vivace. Mi ha sempre parlato in arabo, sapendo che non capisco nulla, aiutandosi con tutti i gesti possibili, per poi prendermi in giro quando vede le mie facce di sconforto, “Inti arabi mafish!”, mi urla, “Sei zero in arabo!”. Certe volte davvero riusciamo lo stesso a capirci (va beh, a parte lo spiacevole episodio dell’idraulico, ehm ehm...). E’ ambizioso e sveglio. Ha occhi vispi. Non ha mai mostrato soggezione, come invece fa Milad. E’ da quando sono arrivata che mi dice che vuole imparare l’inglese, o meglio, che me lo fa capire.

Oggi era salito da me per leggere il contatore della luce. Come al solito arriviamo a un punto in cui non ci si capisce più. Questa volte mi chiede quando parto. Dice che vuole imparare un po’ di inglese prima che me ne vada. Che io gli devo insegnare. Un quarto d’ora al giorno. Parlare. Piano piano, "shwaya shwaya". Che gli indico le cose e gli dico come si chiamano. Mi chiede se c’è problema. 

Io come sempre dico va bene, mafish muskela, non c’è problema, e non penso alla mia stanchezza quando torno a casa, a tutte le cose che devo fare, scrivere, a quanto poco tempo ho. A quanto possa sembrare strano agli altri, chissà che penseranno, che cosa faccio. Qui sento ogni giorno il peso della reputazione

Certo me ne importa fino a un certo punto, sono al di fuori di questo sistema e fra poco me ne andrò, ma è emblematico che la senta tanto, data l’attenzione dei bauab (ovviamente di tutto il circondario) per le abitudini di una donna non sposata che vive da sola.

***

I poveri; bisogna stare attenti con i poveri. A non essere troppo buoni. Perché sono furbi. Perché non sono tutti buoni come noi ce li dipingiamo, mentre ci gongoliamo nei nostri sensi di colpa occidentali

Parlarne così non vuol dire degradarli, ma al contrario dargli piena dignità, superando il buonismo e l'ideale alla "buon selvaggio". 

Vuol dire, per me, ora, anche proteggersi nella propria vita privata. Non si può dare loro troppa confidenza, perché sanno giocare, per sopravvivere. Noi saremo anche i ricchi, ma loro non hanno nulla da perdere. 

[Si veda anche Bauab]

3. Una vita a metà

Venerdì 12 settembre 2008
Ancora mi dico di restare qui, mi contraddico in continuazione e non prendo una decisione.

Poi penso che non ce la posso fare, che questa è una vita a metà; il fatto che abbia trovato un modo mio di affrontare questa realtà, non vuol dire che ci stia bene e che mi realizzi.

Fondamentalmente è limitante, ecco tutto. Manca la libertà, molto semplice. E questo è un cancro che ti si deposita negli atteggiamenti fino a che non te ne accorgi più, fa parte di te e pensi che sia la tua pelle, ma non è vero, non sei tu. E io non voglio essere la persona che sono qui.

Ieri mi ha chiamato A. Telefonata tranquilla e serena. Gli ho parlato della mia situazione. Lui mi diceva, dai, che è una vita emozionante, pensa a chi deve timbrare il cartellino tutti i giorni. Ma non è quello...(e magari! Quasi, ho voglia di annoiarmi a timbrare il cartellino...). Non si può capire. Lui non può capire.

Gli ho parlato di tutto il vuoto affettivo che una vita così provoca.

Dei genitori che gli devo fare io da genitore.

Della nonna che chiude ogni telefonata con le stesse parole: “spero di riuscire a rivederti”.

Degli amici che sono gli unici su cui puoi contare ma che sono lontani. Del dolore che è stato lasciare Bruxelles - e in quel momento la voce mi si è rotta per il pianto ma sono riuscita a nasconderlo.

Delle storie sentimentali, che non ti puoi mai lasciare andare perché sai che te ne devi andare, ed ergi ormai un muro a proteggerti, insormontabile, o invisibile per i più.

Delle persone che conosci, che a un certo punto non ti vuoi più dare, perché lo spazio dentro di te è già occupato, e perché comunque sei stanco di investire per poi dovertene andare.

Dei tuoi colleghi, i veterani della cooperazione, single, separati o ancora in coppia, ma comunque o scoppiati, o depressi, o disadattati, o cinici, o che è peggio, ancora bambini, illusi, eterni playboy ed egoisti, che si appoggiano a te, che sei giovane. Sono pochi a stare bene.

E’ una vita atomizzata

Questo lavoro è più di un lavoro; ti chiede la vita! Ti chiede di mettere da parte te stesso e la tua vita, per dedicartivi. Ma non è possible farlo se non si possa contare su un “contrappesoemozionale, emotivo. Si deve avere una qualche fonte d’amore, se no questa dimensione ti risucchia. Se non hai un sostegno alle spalle, affettivo, o per lo meno psicologico, non ce la puoi fare a metabolizzare l'umanità e le difficoltà che ti circondano. Sapere poi che le cose nella tua famiglia non vanno bene, è un’ulteriore aggravante, che ti rende debole.

Tuttavia, di nuovo, se pure si avesse un partner nella vita privata, vedo che molte volte le storie vanno a finire male dopo un po’ di anni di questa vita. Decisamente credo che la possano fare solo persone con un dispositivo emotivo, umanistico ed estetico diverso dal mio. Forse persone più pragmatiche, o più stabili.

Margot to Eleonora 12:05 AM
Cara Ele,
sono contenta di sentirti e immaginarti nella tua casetta immersa nel verde, sul mare. E' un'immagine da favola! Per favore, appena puoi mandaci delle foto!

Ovviamente, al di là dei sogni, so come siano le prime settimane...tieni duro! Sai, continuo a parlare con persone che magari mi invidiano per quello che faccio (e per carità, adoro quello che faccio!), ma sento proprio un gap e l'impossibilità di fargli capire che non è tutto rose e fiori quando ti trovi a vivere in queste circostanze! In due comunque deve essere diverso...

Io al Cairo come hai detto tu ho trovato il mio equilibrio, seppur fatto di incorporamento delle
limitazioni. Di fatto, si tratta qui di imparare a gestire la mancanza di libertà. Non c'è altra scelta. Poi, quando ti sembra di esserti finalmente abituato, ti svegli un giorno e ti dici che non sei tu quella, e che no, non puoi vivere così! Ma va bene, è un'esperienza di vita, e interculturale, intensissima.

Torno in Europa a dicembre. Ora non ho ancora cominciato a cercare lavoro. Ora mi devo buttare...mancano solo 3 mesi. Però non sono più preoccupata come una volta. Mi sento molto più self confident, e anche appagata per quanto riguarda le mie esperienze, e questo dà tranquillità.

Io ti auguro tutto il meglio e sono ansiosa di essere aggiornata. Un abbraccio!
Margot 

[Si veda anche Vita da cooperante e Molteplici vite]

2. Una scuola in Fayoum

Mercoledì 03 settembre 2008

Oggi sono andata al Fayoum a vistiare una scuola per accompagnare una giornalista. La classe era mista, in sesso ed età. In maggioranza erano ragazze, in linea con gli obiettivi del progetto.

Presa dall’entusiasmo e dalla tenerezza ho cominciatoa fotografare tanto, mentre la giornalista girava con la sua telecamera. I bambini guardavano fisso in camera ma non sorridevano. Cercavo di catturarne un sorriso, ma non ci riuscivo. 


Dopo un po’ sono riuscita a conquistare quattro di loro, che si sono messe a sperimentare la macchina fotografica. Mi faceva un po’ impressione lasciarla in quelle mani, ma quelle risa non avevano prezzo. Con altri invece, non c’è stato modo. 



C'era una bambina molto bella, dagli occhi azzurri e il velo fucsia, con lo sguardo perso. Per tutta la durata della nostra visita, non sono riuscita a cogliere alcun guizzo di presenza nei suoi occhi. Era come spenta. Un suo compagno, accanto, mi guardava con diffidenza.



                                                                       
La giornalista ha chiesto di poter seguire a casa una bambina dopo la lezione. Era per me la più bella. Vestita con una tunica beige lunga e un velo nero dai ricami dorati, timida; una di quelle che non sono riuscita a catturare e che fuggiva sempre l’obiettivo. 



Siamo passati attraverso stanze senza luce, dalle mura non intonacate e il paviemento di terra e paglia, forse sterco. Abbiamo salito gradini fatti di sassi sbilenchi, tra un sacco di cipolle, una bombola del gas, quattro pentole per terra e il giaciglio della capra. Siamo entrati in quella che era la sala da letto, o il salotto. I muri spogli, i tappeti a terra su cui stare scalzi, e solo una piccola televisione rossa accesa, in bianco e nero e con l’antenna, di quelle che ancora si trovavano all’inizio degli anni ‘80. Mi ricorda quella arancione che avevamo nella casa della nonna. 




La bimba a casa si è tolta la tunica – che ho capito essere il vestito buono per andare a scuola – e il velo. La giornalista era molto dolce. Ha acceso la telecamera, l’ha ripresa mentre faceva i compiti, e poi le ha fatto le domande. La bimba rispondeva con un filo di voce e gli occhi sgranati. Era timida, era imbarazzata, non sapeva che succedeva. La mamma la incalzava con dolcezza, e la aiutava a finire le frasi. Io ho fatto qualche foto. 


                         


Dopo, mamma e figlia ci hanno portato nei campi e la bimba ci ha fatto vedere come, dopo i compiti, aiutava la madre a tagliare l’erba per gli animali.  


Il giorno dopo sono stata male per la mia avidità di immagini. Mi chiedevo perché questi bambini non riuscissero a scioglierci, e sapevo già la risposta, come poi mi ha confermato Khaled. Sono bimbi abituati a sentire le maestre descrivere la loro situazione miserevole e di bisogno, e sono stanchi di essere fotografati per quella che hanno capito essere la loro povertà

8. A scuola sono arrivate le sedie!

Giovedì 26 agosto 2008

È un giorno come un altro in ufficio e tra le tante mail riceviamo un rapporto dal nostro collega sul campo. Hassan è fisso in una delle regioni più arretrate e povere del paese, qualche centinaio di chilometri a sud del Cairo, e lavora nell'area "children at risk", per un progetto di costruzione di scuole.





























Sento la mia collega sridacchiare dalla scrivania di fianco a me, mentre inizio a leggere la sua relazione. Più che altro è un raccont sul sole, la terra, il vento, i bambini e la loro semplicità. Ha uno stile leggero e sensibile, e dopo avere introdotto il contesto comincia a raccontare la sua attività.

Si trattava di aprire un nuovo spazio educativo, una nuova scuola di comunità, e quello era il giorno in cui avrebbero portato i mobili nelle scuole. Il suo racconto si concentrava sull’entusiasmo dei bambini che, contenti e impazienti di vedere le aule arredate, hanno esultato all’arrivo dei mobili e sono andati di persona a prendersi le sedie per trasportarle in classe. Descriveva il momento, facce, sorrisi, espressioni, il rumore, l'energia, risa.

Per come sono sensibile in questo periodo, a me sono uscite le lacrime. Per bisogno di condividere, domando alla mia collega se lo avesse letto. Lei è una bella ragazza di 34 anni, molto self-confident; una di quelle persone che dominano la stanza e sono abituate a ottenere quello che vogliono. Del resto, fa parte di una delle famiglie più in vista del Cairo, è sposata, ha due figlie, e varie governanti, tra cui la tata che vive in casa con loro. Del resto, è facile essere self-confident se nessuno nella vita ti ha mai contraddetto.

“Certo che l’ho letto, è per quello che stavo ridendo! Ma che rapporto è, sembra una poesia. E poi dai…cosa vuol dire che 'sono usciti a prendersi le sedie'! Ma te ci credi?! Io non ce le vedo le mie figlie a fare così.”

Io sono rimasta delusa e amareggiata pensando “ma questa vive in Egitto o cosa? È mai uscita dal Cairo? Lavora per i bambini ma non capisce che i suoi sono dei privilegiati e per il restante 95% avere una scuola è un regalo?”

Ecco, per questo non sopporto questo posto in cui lavoro. 

7. Lo spirito E il capitalismo

Martedì 12 agosto 2008

Ieri ho parlato col mio collega tedesco Wolfram del concetto di
lavoro qui. Di quanto tutto sia disorganizzato e completamente fondato non su delle procedure, ma sulla simpatia.

In Europa le procedure ci precedono. Almeno a Bruxelles (in Italia è un po' diverso), non abbiamo il problema di fare favori, di fare regali e sorrisi, perché tutto si muove di vita propria e segue dinamiche che attengono al “è giusto così” e al “si fa così”. A volta fino al limite dell'assurdo e del controproducente, di quando non si sa nemmeno più perché si applica una regola, ma nonostante l'assurdità, non si possono fare eccezioni. Per esempio, perché al capolinea dell'autobus mentre fuori nevica non posso salire sul mezzo mentre è ancora fermo ma devo aspettarlo congelando alla fermata? Perché è così, non si può salire prima.  Perché quando ho dimenticato la valigia sul vagone del treno svedese dalla stazione dalla stazione non hanno potuto chiamare il personale a bordo mentre il treno era ancora in corsa, individuando così la valigia? Perché non si può, e lei dovrà aspettare che la portino all'ufficio oggetti smarriti (dove non arrivò mai).


Qui invece – come anche nel Sud d’Europa del resto, ma in modo molto più accentuato - è tutto flessibile. E’ tutto fattibile. Non c’è un modo piuttosto che un altro. Tutto dipende da chi hai di fronte, e da come ti comporti tu. 

I documenti non ha senso metterli in un ordine sistematizzato. Basta buttarli sullo shared-drive e poi si troveranno, perché si chiede a qualcuno; qualcuno che ricordi a prescindere da una classificazione razionale e accessibile dall’esterno. C’è sempre qualcuno a cui si deve chiedere per finire un lavoro e per ritrovare un documento. Perché le procedure non esistono, la logica è contingente e relativa, e quindi bisogna ricostruirla ad hoc volta per volta. Ovviamente non esiste garanzia di nulla e in nulla, ma nel momento in cui si riescono a controllare bene i fili del meccanismo è possibile procedere in maniera molto snella se non più efficiente che da noi. 

Per quanto riguarda il lavoro, almeno nel mio ufficio ho l'impressione che resti un puro mezzo di sussistenza, dove i risultati sono piuttosto un modo di ottenere riconoscimento, e forse una promozione, dal capo. Ma raramente c’è un fine più grande e più astratto, precedente, che motiva. I dipendenti locali lavorano qui a ** perché questo è coerente e adeguato allo status sociale della loro famiglia di origine e perché lo stipendio è buono, ma non perché vogliono contribuire a sollevare il mio paese dalla fame.

Però, esiste anche una dimensione positiva di questo maggiore distacco dal lavoro. Qui non esiste quell’etica del lavoro malsana che abbiamo in Europa, in quanto tutte le loro energie migliori vanno alla loro parte spirituale. Che lo si chiami Cristo, Maometto, Buddha, Yoga, Mindfulness meditation o contemplazione, questo è qualcosa di bello che noi abbiamo perduto e facciamo fatica a reintegrare nella nostra quotidianità

4. Lettera a un'amica

27 giugno 2008

Cara Anto,
che bello sentirti. E' vero, ci siamo perse un po' di vista.

Ti dirò, non sono affatto contenta del lavoro. Mi hanno messa a fare monitoring and evaluation, e dalla mia posizione di appena arrivata è molto limitante, perché ovviamente non so nulla dei particolari di tutti i progetti che sono ongoing. Inoltre non ho un superiore. Ora cambiamo capo, e penso che la mia posizione verrà rivista, per fortuna. Per il resto mi sembre di perder tempo. Resto qui tuttavia, perché penso che l'esperienza al di là di questo, valga. E ora dovrò ricominciare a mandare cv...

Però ti dico una cosa. Gli anni passano. La vita in questi paesi è difficile per una donna sola. Io sinceramente comincio a pensare ad altre cose belle nella vita che non siano il lavoro. E realizzo che se continuo a fare questa vita vagabonda mai potrò realizzarle.

E poi non riesco più ad adattarmi; sei mesi, è vero, sono il minimo per adattarsi e poi la vita riprende a scorrere. Ma io sono impaziente e dopo due settimane vorrei, ho bisogno di essere assestata! Perché negli ultimi anni, sei mesi è stato il tempo massimo delle mie esperienza, e bisogna tuffarsi nella corrente il prima possibile per poter vivere appieno. Ora di mesi davanti ne avevo 12, ma non sono poi tanti di più.


E infine, penso di non essere fatta per la cooperazione, per vedere gente incapace o inconsapevole che lavora a **, le porcherie, gli sperchi, e tanta povertà. Solo chi è nato ricco e non ha mai toccato la merda può secondo me lavoare a **. Altrimenti ti incazzi.

Oppure forse mi lascio invadere troppo, per essere una cooperante. Io non riesco a vedere la povertà e questi bambini. Non riesco a chiuderli fuori dalla porta di casa quando rientro. Non ce la faccio. Lascio che mi seguano nella mia vita privata. 

Allora che devo fare, rinchiudermi nella mia gabbia dorata europea? Forse...Forse ho raggiunto il mio limite, il mio momento di massima espansione, e devo ammettere che ora è il momento semplicemnte di stabilizzarmi dove sento di stare bene io.

Scusa il tono...ma le contraddizioni sono davvero tante. E il personale locale qui è composto solo da componenti di famiglie ricche che lavorano in ** perché è un tipo di posizione che si confà al loro lignaggio, e che continuano a fare la vita che fanno (molto più agiata di noi vecchi europei) solo perché esistono i poveri e gli ignoranti, se no perderebbero tutti i loro privilegiQuindi credo che lavorare a **, lungi dal scegliere di stare con gli ultimi, significhi proprio perpetuare i privilegi. 

Io credo che il mio futuro sia in Europa.

E tu?
Un abbraccio forte
Margot

2. Un paese in crescita

19 giugno 2008

Gli Egiziani sono sempre più poveri; l’inflazione è al 20% e la crisi alimentare all’apice.

Tuttavia continuano a fare figli, e su una superficie grande quanto la svizzera vivono concentrate 80.000.000 di persone. Il governo vuole cominciare a controllare le nascite tipo in Cina e sta tenendo campagne per limitare il numero massimo di figli a due. Questo solleva ovviamente grande disappunto a livello religioso(spero solo che questo non si traduca in un ulteriore aumento della frustrazione sessuale maschile perché più di così veramente non è gestibile!)

Per combattere la forte inflazione inoltre, non trovano nulla di meglio che continuare a sovvenzionare la benzina. La macchina quindi – seppure non riescono a portare a casa il pane – se la devono comprare tutti e ovviamente la maggior parte può permettersi solo catorci anni ’60 a carbonella che rendono l’aria irrespirabile.

Assieme alle macchine poi, crescono gli obesi: sì, perché se i poveri davvero non mangiano, quelli di classe medio-bassa mangiano troppo e cibo di scarsa qualità (chips, fritti, carboidrati).

Quindi riassumendo, tutti hanno la macchina, l’aria è irrespirabile perché per di più sono macchine degli anni ‘60, ci si ammala di cancro per l’inquinamento e di malattie cardiovascolari per l’obesità


Anche da noi? No, perché qui tutto è amplificato enormemente dagli effetti di uno sviluppo più aggressivo e subitaneo. Noi ai tempi non abbiamo mai avuto un tale numero di macchine anni '60 circolanti contemporaneamente e ora abbiamo leggi che cercano di ammortizzare l'impatto ambientale - per non parlare poi del loro sistema sanitario...Quindi evviva i progressi dei paesi in via di sviluppo, ma soprattutto, evviva il nostro sviluppo, importato con successo.

La mia bisnonna quando in Italia vi era la stessa ripartizione di classe tra pochi benestanti e masse di contadini, si faceva 35 km al giorno in bici per andare a lavorare. Quanto starebbero bene: respirerebbero e dimagrirebbero.