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1. L'uomo della frutta

2 gennaio 2009
In tutto questo tempo non ho ancora mai parlato dell’uomo della frutta.

Una donna occidentale che abita da sola, oltre a rappresentare un’attrazione misteriosa e una sfida intrigante per quanto riguarda la sua vita privata – e la possibilità di inserirvisi a vario titolo – è anche una fonte di interesse commerciale.

In una delle tante misteriose scampanellate ricevute alle ore più bizzarre, una volte mi sono ritrovata davanti alla porta l’uomo della frutta. Ha un botteghino giusto dietro l’angolo della mia strada e conosce i miei bauab (sicuramente sono stati loro a spedirmelo…).

Nonostante le mie prime esitazioni, questi egiziani sanno lusingare e a loro modo conquistarti. Per sapendo che mi sarebbe stato riservato un prezzo maggiorato di almeno il doppio (comunque poco per i nostri standard), mi sono fatta convincere dalla comodità di avere recapitate frutta e verdura fresca direttamente a casa quando più ne avessi voglia.

Ovviamente non potevo immaginare che questo volesse dire scampanellate quotidiane, in quell’orario in cui esausta dal lavoro e dal frastuono, dopo la doccia, ho solo voglia di raccogliermi in casa con me stessa, i miei libri e le mie coperte, e non parlare con nessuno, tantomeno gesticolare in arabo! (Quell’orario per me inizia alle 19.30-20.00, quando torno dalla palestra…ma le scampanellate potevano giungere anche dopo le 21.30 e passa…Infine ho imparato a ignorarle).

L’omino mi si presenta con un cestone pieno di frutta e verdura che basta per una famiglia per una settimana. Prima che io riesca a dire qualcosa, si fionda dentro casa e appoggia il cestone (non proprio pulito) sul tavolo in salotto e comincia a tirare fuori tutto… A poco serve indicare con precisione quali pezzi si desiderano, perché – pena l’esaurimento per stare a contrattare tre ore – sarai comunque costretta a comprarne molti di più di quelli che ti servono.

Questo è quello che è successo le prime due volte, perché a lui non mi andava di trattarlo male, in fin dei conti mi pareva un uomo per bene. Alla terza però sono diventata molto più irremovibile. Il fatto purtroppo è che per averla vinta non è sufficiente ripetere fermamente…ma si deve arrivare a urlare, altrimenti non la capiscono!

Addirittura una volta, nell’intento di mostrarmi il succulento interno di un frutto, senza chiedere niente si è intrufolato nella mia cucina (in cucina!), e con le mani nere ha cominciato a toccare dappertutto per cercare un coltello…cassetti, ripiano, e ha pure preso un piatto… Io ho avuto giusto il tempo di precipitarmigli dietro urlando di non toccare nulla e di uscire subito di lì! 

Ho capito perché loro urlano tutto il tempo. La gentilezza non paga, e specialmente da parte di una donna occidentale. Se li si tratta in maniera educata e gentile non otterrai mai ciò che vuoi: ti raggireranno come vogliono e finirai calpestata. E infatti ho dovuto neutralizzare, anzi, indurire la mia espressione, eliminare completamente il sorriso, parlare in modo secco, e troncare la conversazione urlando. Dopo un anno qui, non sorrido praticamente più quando parlo con le persone. Solo che per me questo è altamente snaturante, e soprattutto stancante; è faticoso non sorridere ed essere autoritaria, non ci sono abituata!

Ricordo sempre quando, appena arrivata, sono rimasta del tutto stupita dal fare di Sara, che avevo trovato aggressivo e autoritario… “Colonialista” e poco rispettoso, avevo pensato. Null’affatto. Il più delle volte si è dimostrato essere l’unico modo. 

2. Proposte quotidiane

I taxisti ti sbirciano dallo specchietto retrovisore.

La prima cosa che cercano di avvistare è l’anulare della mano sinistra, per vedere se c’è la fede. Io nascondo le mani, oppure giro verso il basso il mio grosso anello con la pietra nera, così da restare con solo una fascia d’argento. Tanto, qui la maggior parte delle fedi sono di argento.  
Poi cercano di guardarti le gambe.

- Sei sposata?
Sì; no; dipende da come mi gira, da quanto mi sento vulnerabile o da quanto me ne frego quel giorno, e da quanto ho voglia di inventare e giustificare, o di assumermi il mio status di donna "matura" single (il fatto di non essere sposata alla mia età - 29 anni - desta loro seri interrogativi!).

Se è sì
- E dov’è tuo marito?

- Mio marito lavora qui, l’ho seguito/

- Mio marito non c’è, è in Italia.
- In Italia?? E ti lascia venire qui da sola? No good!
- Ma è solo per poco, sto qui per qualche mese.
- E vivi da sola?

- Sì, vivo da sola (sguardi spersi e di disapprovazione. Alcuni dopo questa risposta si tacciono. Altri la prendono come un’incentivo in più a provarci)/

- No, vivo con una mia amica 
      - Aahh...

- E hai figli?
Sì; no; a seconda di come mi sento.

- Sì, ho due figli piccoli.
- Amdullilah. È bello avere figli! Bene bene! /

- No, non ho figli.
- E perché? Non ti piacciono i bambini?
- Sì, certo che mi piacciono, ne avremo presto (mentre penso, sì, certo, mi trovi te uno straccio di uomo che voglia fare figli prima che io abbia 40 anni?)

Se è no (non sono sposata)
- E perché?
- Ma sono fidanzata, ci sposeremo presto.
- E non ti piacciono gli uomini egiziani? Ci sono tanti uomini egiziani sposati con donne italiane sai? [ed effettivamente è vero! E ammetto che in generale gli uomini egiziani oltre ad essere belli, hanno il loro fascino]. Egitto e Italia vanno bene assieme! [mentre avvicina gli indici delle mani e mi fa l’occhiolino dallo specchietto, con un ghigno sdentato].

L’ordine delle domande è un po’ variabile. Possono iniziare coi figli per arrivare solo dopo al matrimonio e all’uomo. Poi tastano il terreno sulla tua morigeratezza.

7. Di nuovo, touchée

Lunedì 22 settembre 2008

Oggi quando stavo entrando in metro, di nuovo mi hanno toccato. Quanto è umiliante e frustrante. 

Erano in quattro. Tre sono scesi velocemente dalle scale, metre io stavo salendo. L’altro ha indugiato, si è fermato sugli scalini, nella mia traiettoria, aspettando che io salissi e mi spostassi per non andargli addosso, e ha allungato la mano. 

Come sempre quando realizzi, loro sono già lontani. Io e Liliana gli abbiamo urlato insulti, tra cui “porco” in arabo. E loro ridevano, che odio! 

Le guardie erano poco più in là, dentro alla metro, e hanno detto che non possono oltrepassare i cancelli della metro; una ragazza egiziana ci ha appoggiate sostenendo animatamente, in arabo, che o fuori o sulle scale della metro loro possono comunque fare qualcosa se succedono queste cose! Che palle, come mi fa sentire male. 

È la seconda volta che una donna egiziana interviene in nostra difesa in un episodio di molestia. La prima volta era stata ad Alessandria. Penso sia la prova che anche loro sono esasperate.


[Si veda anche Toccata e fuga e Il velo: decenza o intrigo?, quest'ultimo riguardo le molestie alle donne egiziane]

2. Scomparire, ma senza il velo

Sabato 2 agosto 2008

Simmel, uno dei miei sociologi preferiti, diceva che si comincia ad esistere agli occhi dell’altro solo quando guardiamo; ovvero, esistiamo non quando e non solo se lo sguardo altrui ci raggiunge (quando cioè siamo visibili, visti, guardati), ma quando lo sguardo altrui è ricambiato e validato dal nostro, nella reciprocità.

In verità lui dice che “The eye cannot take unless at the same time it gives...In the same act in which the observer seeks to know the observed, he surrenders himself to be understood by the observed”, ovvero non si può guardare senza non essere visti; o, per la reciprocità, non si è visti che nel momento in cui si guarda, si ricambia lo sguardo.

Io sono una persona aperta, che guarda tutto, che gira la testa, che guarda le facce di chi mi sta intorno. Se sono circondata da uomini, certo mi viene da esplorarne il viso. Nulla di più inappropriato qui, perché è un gesto che trasmette automaticamente disponibilità

Lo sguardo di un uomo non si ricambia, non si deve incrociare.

Quando cammino per la strada, e mi sento tutti gli occhi addosso, devo cercare di resistere alla tentazione di guardare. Per me è molto difficile perciò camminare a testa bassa, guardando in terra. Mi sento di implodere, di annullare la mia esistenza. Di scomparire.

Scomparire, questo è quello che queste donne vogliono. Annullare la loro presenza sociale, nascondendosi dentro vestiti a sacco e a un enorme velo nero, integrale, che a volte copre persino gli occhi. Quanto darei per averne uno e annullarmi…

Ma io non posso. Qui il velo non è obbligatorio e loro sanno benissimo che non fa parte della nostra cultura, e non ci giudicano per questo. E allora che penserebbero di una donna occidentale che se lo mette? Sarebbe una cosa senza senso alcuno, quasi un’offesa, equivalente a dire loro che non sono abbastanza civilizzati da accettare le differenze culturali. Una donna occidentale al Cairo col velo è semplicemente ridicola. Alcune turiste lo fanno, e tutti convengono sul fatto che sono ridicole.

E allora ho trovato anche io un modo per non dover camminare a testa bassa, cosa a cui non sono abituata e che mi umilia; per guardare ma non essere vista mentre guardo. Gli occhiali da sole!

Con quelli riesco a camminare a testa alta senza sembrare sfacciata. Riesco a vedere gli occhi di chi mi guarda, senza in realtà validare il loro sguardo, che resta perciò sospeso nel vuoto, e non brilla di quel disgustoso e insolente fremito di desiderio quando si accorge di incrociare il mio.

***


Lunedì 04 Agosto 2008

Ho comprato una gonna lunga nera, doppio strato. Un po’ bombata tanto per non sembrare una scopa. Di quelle che si sono viste solo nella foto in bianco e nero della tua bisnonna.

Non mi è mai piaciuto come mi stanno le gonne lunghe e non le ho mai portate, ma qui lentamente mi sto adattando a forza di vederle in giro. E poi mi permettono di sentirmi un po’ femminile, non ne posso più di pantaloni lunghi e maglie lunghe che coprono il culo…

Non riesco più a sentire il mio corpo, ad accettarne la sensualità. Ne ho bisogno, mi manca, mi sento mutilata, ma non posso darle voce, devo solo occuparmi a scomparire. 

Ahmed è l'unico momento di respiro in cui possa ricordarmi di essere donna. Ed è così, nel privato, che le donne arabe riservano la loro femminilità solo per i loro uomini.

1. È come mi fanno sentire qui

Venerdì 1 agosto 2008

Io - che fino ad ora ero convinta che la mia esperienza abroad fosse finita, e che questo fosse solo lo strascico di una fase della mia vita ormai conclusa, e che quello che mi aspettasse fosse l'Europa - ora vengo presa dall'entusiasmo e non voglio che tutto ciò finisca. Sento un migliore bilanciamento delle mie energie,  sento di avere voglia di fare cose, di leggere, di conoscere questo paese. Sto leggendo libri sulla società egiziana e ho ripreso in mano la Lonely Planet. Sto pensando ai viaggi. Sento il tempo scorrere, che sono rimasti pochi mesi, e ho voglia di vivere.

Non penso però che questo rinnovato entusiasmo nasca solo dal senso di urgenza provocato dal tempo che passa; credo piuttosto e purtroppo che l’
immobilità che mi ha colta durante i primi mesi non potesse in alcun modo essere contrastata perché faceva parte del normale processo di ambientazione che in questi luoghi – data anche la mia condizione di donna sola – è normale che prenda più tempo. Ma altrettanto continuo a soffrire per questo ormai triennale e itinerante sradicamento dagli affetti, che mi ha portata a ridisegnare la mia vita da capo ogni sei mesi...e che mi ha stancato tanto.

È venerdì e sono a casa (qui è giorno festivo).
Il caldo è soffocante. In camera da letto ho l’aria condizionata, che però fa un rumore rintronante; e in salotto c’è solo la ventola, che non è abbastanza per rendere l’aria respirabile. Mi sono svegliata presto, e ho passato la mattinata individuando le cose da scrivere sul cv. E poi ho finalizzato il mid-term report che devo mandare. Ho letto. < Poi mi è preso il vuoto. Se non ho qualcuno con cui uscire - e non è facile trovare qualcuno con questo caldo - non me la sento. Non è facile andare da sole, è un assillo e un’umiliazione continui, esasperanti, da gridare, da piangere, da prenderli a schiaffi.

Mai nella mia vita ho sentito questo senso di
impotenza e di noia. Mi sento imprigionata in casa, dal caldo, dagli uomini. Vorrei uscire, andare, ma non riesco. Mi sento male nel mio corpo, mi ci fanno sentire. Non è mai abbastanza; vorrei uno dei loro camicioni per nascondermici dentro. Questo è come mi fanno sentire qui.

Non deve essere così per tutte le donne. Ci sono quelle che
se ne fregano, che si sentono meno limitate; le nordiche soprattutto, mi pare. Sicuramente dipende un po' dalla cultura e un po' dal rapporto che ognuna ha col suo corpodalla cultura perché 
le nordiche, e le scandinave in particolare, secondo me vengono da un contesto dove la parità di genere e il rispetto sono talmente acquisiti, che nemmeno hanno i "recettori" per sentirsi offese nella loro dignità di donna. Io da italiana invece (anche se sono cresciuta in un nord progressista) confronto e confermo la mia identità in base ai codici e ai meccanismi della cultura mediterranea, che è la stessa che c'è qui, seppure estrema; dipende infine dal rapporto di ognuna col suo corpo perché penso ci siano donne che vivono "meno in contatto" col loro corpo, o meno abituate a esprimersi tramite esso; forse loro si sentono meno mutilate...

Faccio come le donne egiziane che si
barricano in casa. E poi non saprei proprio dove andare. Non c’è un parco, un bel boulevard...non c’è nulla di piacevole e rilassante durante il giorno. Questa sera andrò in un locale con Nada e Marta.

La mia camminata ha preso la cadenza lenta degli egiziani. È l'unico modo per resistere al caldo.

11. Il velo: decenza o intrigo?

Mercoledì 30 luglio

Primo classificato in molestie sessuali

Questa sera sono andata a cena con Nada e due sue amiche al Sequoia, un locale abbastanza in vista proprio sulla punta meridionale dell’isola di Zamalek.

May, l’amica di Nada, è egiziana, ha 45 anni, è cresciuta nel Regno Unito e ora lavora in una ONG. Abbiamo parlato a lungo di cosa vuol dire vivere da donna al Cairo, e mi ha spiegato come al momento l’Egitto non abbia eguali nel mondo arabo in materia di sexual harrassment.

Comparati con l’Egitto infatti: il Maghreb è molto più libero sessualmente e vi è quindi meno frustrazione; nel Golfo - fermo restando l’adeguarsi alle loro regole - sono più abituati a trattare con gli stranieri per scopi commerciali e ne interpretano meglio i comportamenti. Come ha detto May, “capiscono, ad esempio, che essere non-vergini non coincide con la disponibilità immediata, né col poter/voler far sesso con qualunque uomo: insomma sanno che anche le donne amano scegliere con chi avere una storia, indipendentemente da se sono vergini o no!", (e ancora mi torna in mente la scena di Persepolis, dove la nonna racconta come gli uomini si relazionino alle donne divorziate)! Infine, in Libano e Syria sono più conservatori, ma lo stesso non succede come qua.

Questa triste primato egiziano è legato alla progressiva crescita della fascia di popolazione maschile “frustrata”, e questo dipende da varie dinamiche sociali:

- Il miglioramento delle condizioni di vita assieme alla sopravvivenza di modelli familiari di tipo tradizionale continuano ad alimentare il boom demografico, facendo sì che i giovani costituiscano più della metà della popolazione.

- L’età del matrimonio si è progressivamente spostata in avanti, un po’ perché più giovani hanno accesso agli studi, un po’ perché col recente peggiorare della situazione economica ci vuole sempre più tempo per mettere da parte i soldi necessari a sposarsi. Va da sé che per chi fa parte della classe medio-bassa ci sono ben poche possibilità di entrare in contatto con una donna al di fuori del matrimonio. L’amico di Sara che mi ha aiutato a trovare casa ha 31 anni, e mi ha detto che è vergine, e io a vederlo ci credo.

Il velo integrale: decenza o intrigo?

Il problema ha assunto una portata importante ed è già elemento di dibattito in alcune arene politiche (questo mi solleva, perché vuol dire che non sono io a esagerare e a non saperlo gestire!). Inoltre, lungi dal riguardare solo le donne straniere, colpisce sempre di più anche le donne egiziane velate, e persino quelle col niquab, ovvero coperte completamente.

A proposito di questo, il nostro security officer, Amir, ci ha raccontato un aneddoto molto eloquente. Un uomo – portato alla polizia per aver molestato una donna coperta – avrebbe detto: “era tutta coperta…chissà cosa c’è sotto!”. Una tale affermazione è interessante, in quanto disconosce di fatto il sistema di valori della cultura islamica!

Il ruolo e l’effetto del coprirsi o del nascondersi è molto diverso tra mondo occidentale e orientale.

"Hot!"
Il commento di un mio amico (italiano) quando ho pubblicato su facebook questo primo piano di tre donne, in cui si scorgono solo gli occhi sotto i niquab, è stato:hot!”. In una società come la nostra dove tutte le frontiere del corpo sono state socialmente abbattute e tutto è posto alla portata di tutti, se pure l’occhio dell’uomo occidentale è abituato a cercare la carne nuda, apparentemente non rimane indifferente al suo contrario e resta intrigato da ciò che è troppo nascosto: ciò che non si vede resta uno stimolo per la curiosità.

Nella società araba tradizionale invece il coprirsi non è una scelta bensì una condizione imprescindibile per la donna, e a differenza della società occidentale, non vi corrisponde alternativa. Anche il concetto di pudore di conseguenza è diverso. In occidente il pudore si oppone alla volgarità, mentre qui resta un concetto molto più neutro, che corrisponde piuttosto a un’affermazione di modestia e discrezione, e non ha necessariamente a che vedere con la repressione. Non avverto in questa cultura il concetto di volgarità, o se lo vedo, è sempre derivato da un’estetica importata dall’occidente.

Le sostenitrici del velo fanno coincidere il coprirsi con l’affermazione della propria esistenza di donna al di là della dimensione sessuale: portare il velo vuol dire mostrarsi prima di tutto come donna e persona, invece di oggetto di attrazione sessuale.

Con questo non voglio né negare l’esistenza di un’ingente pressione sociale a favore del velo, esercitata sia dalle donne che dagli uomini; né il fatto che le donne a sostegno del velo abbiano semplicemente introiettano il sistema di valori dominante; né l’esistenza di una grande ipocrisia in questo ambito. 


Noto solo come in un paese dove mettere in mostra le proprie carni non ha mai fatto parte delle opzioni, la scelta di mantenersi fedeli alle proprie tradizioni e il distacco dall’estetica occidentale non è vissuta dalle donne necessariamente come una privazione, ma al contrario come un’affermazione della propria identità, di donna, e di donna araba.

Escluso quindi l’elemento di “repressione” (L'Egitto non è una società estremista) e tralasciando la mia opinione personale a riguardo, ma mettendomi nei loro panni, perché le donne arabe dovrebbero smettere di portare il velo? Siamo noi donne occidentali forse più rispettate perché non lo portiamo? 


Inoltre, lungi dal limitare l’espressività, il velo è un codice vestimentario come un altro, declinato in mille modi, anche sensuali (e qui si aprirebbe un dibattito complicatissimo sulle contaminazioni occidentali e le differenti maniere di indossare e interpretare il velo...). 


[Si veda anche il post Il gusto di una seduzione di privata]

L’uomo arabo tra oriente e occidente

Ma tornando all'uomo interrogato dalla polizia; affinché un codice, in questo caso il velo, possa generare senso, deve corrispondervi la capacità dell’uomo arabo di interpretarla: in presenza del velo l’uomo d’onore non solo rispetterà, ma proteggerà la donna che aderisca a questo sistema valoriale.

Quello che sta succedendo ora invece, nell’incontro tra culture e nel mischiarsi delle estetiche e dei codici tra oriente e occidente, è che l’uomo arabo è esposto all’estetica e ai codici occidentali; e quindi mentre i codici occidentale e orientale convivono e si sovrappongono, la reciprocità interpretativa non è più scontata e si crea uno scollamento tra il valore tradizionalmente associato a un certo tipo di comportamento (comprese le scelte di abbigliamento) e la loro interpretazione, soprattutto dallo sguardo maschile.

All’interno della stessa cultura araba si è creata una contraddizione valoriale che fa sì che l’uomo arabo vada a importunare la donna in burqua, quella che dovrebbe rispettare, quella "decent" - per dirla come loro sullo stile vestimentario più tradizionale! Questo mi sembra sintomo di una grande confusione simbolico-culturale, in cui versa l'uomo arabo attualmente, stretto tra la volontà di onorare la propria cultura e tradizioni, e l'avanzare della società dell'immagine occidentale, con la sua particolare estetica del corpo femminile.

Dall'altro lato, una donna si copre per conformarsi a certi modelli morali dettati dalla società tradizionale, ma finisce, per lo stesso fatto di coprirsi, per destare esattamente quei desideri che si proponeva di escludere! Così di fatto le donne arabe in Egitto sono private della capacità di padroneggiare i codici della loro stessa civiltà.

Il risultato di tutto ciò è che è impossibile girare per le strade del Cairo per la stizza che ti assale per gli innumerevoli rompipalle. Non che ci sia un reale rischio di essere assalite o violentate - nulla di più impossibile! E’ solo che è psicologicamente talmente profondamente umiliante, talmente la propria femminilità è schiacciata e strumentalizzata che piuttosto che tornare a casa con quella sensazione d’intrinseca sopraffazione e sporcizia, preferisco a volte rimanere in casa. Io sì vorrei potermi nascondere dentro un burqua!

Per concludere, è certo evidente che se una donna ha bisogno di coprirsi (ovvero limitare la libera espressione della naturalezza del proprio corpo) per poter essere considerata come una persona prima di un oggetto di desiderio, qualcuno nella società le sta negando la libertà…di semplicemente esistere! Ma in occidente abbiamo dimostrato di essere così tanto più brave a gestire la nostra “libertà”? E si può considerare tale quando anche questa è fondata sull’estetica ideale maschile?

3. L'idraulico (parte II)

[Per una visione completa della vicenda, leggasi prima L'idraulico (commedia degli equivoci)]

25 giugno 2008

Sono le 21.30 e sto chattando con un amico che mi chiede se e quando tornerò in Italia per la pausa estiva e se riusciremo a vederci. Devo ancora finire di fare le valigie perché ho l’aereo per Roma proprio l’indomani mattina. Suonano alla porta.

Che sia Ahmed? Strano, lui mi chiama sempre prima di passare. Guardo nello spioncino e l’unica cosa che distinguo è una maglia verde acido. Non sembra Ahmed. Non apro, anche perché sono in cannottiera e pareo. Poi penso che potrebbe essere il ragazzo dell’immondizia. Domattina parto in Italia per due settimane e mi spiacerebbe pagargli il mese in ritardo. Mi infilo quindi un paio di pantaloni, torno alla porta e guardo: la figura è ancora lì, all’altezza dell’ascensore, quindi lontana; posso aprire senza pericolo.

Non ci posso credere, è il ragazzo camerunense, l’”idraulico”!! La polizia gli aveva già intimato di non farsi più vedere nei paraggi, e gli avevo risparmiato una denuncia che lo avrebbe fatto rispedire in Camerun, non senza passare prima per le carceri egiziane – che non è bello.

Sbatto la porta, metto sbarra, catena e due giri di chiave. Lui grida madmoiselle, je vous enprie!! Attendez!”.

***

Oggi pomeriggio stavo tornando a casa passando per Via Ahmed Sabry, davanti alla chiesa di San Giuseppe (la stessa in cui Magdi Cristiano Allam si è convertito), di fronte casa mia. Qualcuno mi saluta in francese alle mie spalle: “Bonjour Margot”. Ho pensato fosse Flavien, un mio amico francese, e mi sono voltata. E invece era il camerunense. Ho sgranato gli occhi con aria irritata e mi sono rigirata affrettando il passo, ignorandolo. “Madmoiselle, je vous enprie!” – continua, ma io non mi giro.

Entrata nell'atrio di casa, poche decine di metri dopo, ho detto a Milad “Camerun – come lo chiamano loro - henek!” (Il camerunense è qui!). Lui ha ruotato la mano all’altezza della tempia, nel loro gesto consueto, pronunciando una parola che avrà voluto dire “pazzo”. Nelle ultime settimane Milad e Attif mi hanno detto infatti almeno quattro volte che lui ha cercato di entrare e salire per le scale, ma loro sono riusciti a rispedirlo ogni volta. Oggi apparentemente è riuscito a non farsi vedere!

***

Sono chiusa in casa. Non ho il numero della polizia e anche se lo avessi non saprei come comunicare! Mentre cerco di chiamare Liliana sento del trambusto sul pianerottolo, la voce di Milad e di un altro uomo.

Mi butto uno scialle sulle spalle e apro la porta. Milad è salito con lo stesso poliziotto dell’altra volta! Bravo Milad. Lo sguardo del poliziotto è eloquente: “che devo fare questa volta? Lo porto dentro o di nuovo no?”. Esito, so che non ho molto tempo dato il precedente. Dico sì. Questa volta ho avuto paura, e la sua possibilità glie l’avevo già data. Non mi devo sentire in colpa.

Al mio annuire il ragazzo si lascia sfuggire un gesto di rassegnazione e stizza, rotando gli occhi verso l’alto. Mi dispiace, perché non so cosa gli faranno, mi sento male, ma io devo pensare a me. Solo che ora non so cosa questa denuncia comporti…mi chiederanno documenti, dove lavoro, metteranno in mezzo il mio ufficio? Non voglio che si sappia. Chiudo la porta sperando con poca convinzione che quella serata si sarebbe conclusa lì.  Ma immancabilmente dopo pochi minuti…risuonano alla porta.

Apro e vedo il noto convoglio di bauab (i portieri) del quartiere. Ormai la trafila la conosco. Si fanno tradurre dall’arabo da qualcuno dall’altra parte del telefono e mi informano che sarei dovuta andare con loro in questura in quel preciso istante. No… Mi cala lo sconforto e mi sento spersa. Come in questura – certo in questura – chiaro. Ma a fare che? No, non ci voglio andare, da sola. E poi è tardi, la valigia, il taxi, il volo… Prendo tempo congedando momentaneamente il corteo con la scusa di dovere andare a cambiarmi – tutti annuiscono in coro. Nella foga mi infilo la prima maglietta che trovo – e di cui di lì a poco mi sarei pentita.

Chiamo subito Elia, il mio professore di arabo, per chiedergli se per favore potesse venire con me; il “tribunale popolare” lo conosce già e mi farebbe sentire più sicura. Lui era con la sua ragazza russa in visita, con cui aveva litigato per tre giorni di fila, perciò non solo inizia a urlarmi contro che me la sono cercata e che sono un’incosciente perché avrei dovuto denunciarlo la volta prima, ma anche a farmi terrorismo psicologico, su quello che si legge quotidianamente sui giornali, di donne accoltellate e violenze di tutti i tipi. Ti prego Elia… Ok, arriva, ci saremmo incontrati per strada.

Quindi esco da sola, in coda alla processione di bauab – compreso Milad - desiderando di scomparire. Le strade di Zamalek sono ancora popolate, c’è il solito baccano, il caldo appiccicoso e tutti ci guardano. L’avventura in questura al Cairo decisamente mi mancava.

Appena all’esterno mi rendo conto dell’infelice scelta di vestiario. Non ho trovato niente di meglio, per sostituire la canottiera, di infirlarmi una maglietta fucsia scollata col collo tipo barchetta e delle “mezze maniche”, per così chiamarle, che appena coprivano metà spalla - ma come mi è saltato in mente…e perché non ho preso lo scialle, ci mancava solo questa per completare la vergogna.

Subito dopo informo Liliana della mia destinazione, dove mi raggiungerà il prima possibile. Per ingannare l’attesa durante questa marcia, e in preda a dilemmi lavorativo-diplomatici, penso bene di chiamare Amir, il nostro security officer per spiegargli la situazione. Mi scuso per l’orario, perché erano tipo le 23 passate, e lui mi dice che non c’è problema, che è in palestra e che si precipiterà lì. Wow, penso, Amir va anche in palestra.

Il piccolo ufficio di polizia di quartiere è circondato da soldati. Noi attendiamo che ci facciano entrare, mentre Liliana mi raggiunge. Sono la sola donna, nemmeno a specificarlo, e mi sento nuda, tanto per cambiare.

***

Entriamo in una saletta un po’ più piccola di un’aula scolastica. L’atmosfera è un misto tra un poliziesco anni ’70 e immagini offuscate d’infanzia. I mobili sono scuri, vecchi, di colore marrone o grigio, di metallo o formica e le pareti sono umide e annerite. Un grande tavolo su un lato, dietro il quale si mettono due giovani ufficiali; due file di sedie lungo la lunghezza della sala; degli armadietti metallici fatiscenti nel lato opposto; l’immancabile foto del Raìs di venti anni più giovane.

Io e Liliana veniamo fatte sedere su alcune sedie lungo la parete. Di fronte a noi, dall’altro lato della stanza, siedono Milad, un altro bauab, e il ragazzo. Elia è in piedi e vocifera con gli ufficiali.

Milad è malato. Già a casa non aveva una bella cera, ma ora è proprio peggiorato; ha freddo ed è sempre più giallo in volto. Mi fa tanta pena, prima di tutto perché sta male e si vede che a fatica si regge in piedi; in secondo luogo perché si vede che è intimidito dal contesto e – così come è per la povera gente – seppur non abbia fatto nulla si sente vulnerabile di fronte alla legge e teme di poter essere accusato di qualche cosa. Lo invito più volte ad andare a casa, ma risponde sempre di no.

Il ragazzo camerunense è seduto proteso in avanti, con i gomiti sulle ginocchia, e continua a guardarmi con sguardo fisso e tagliente, incessantemente. Mi fa paura. Penso a cosa gli faranno o alle possibili ritorsioni nei miei confronti se fosse lasciato libero. E se poi continua a venirmi a cercare? E se riesce ad eludere la sorveglianza e ad aspettarmi nascosto nel pianerottolo per vendicarsi? Del resto fino a questo momento non mi ha fatto alcun male mentre sono io a metterlo nei guai! Penso che sto forse andando troppo oltre, che dovrei ritirare tutto, ma ormai sono in ballo, e Liliana mi ricorda di come sia stato lui ad esagerare, e ripetutamente. Non riesco a guardarlo negli occhi.

Il clima è torrido e teso, è mezzanotte passata, la mia testa continua nelle sue evoluzioni mentali disastrose e io vorrei finire il più in fretta possibile. Improvvisamente, la lunga e inspiegabile attesa viene interrotta da una figura imponente che irrompe trafelata nella sala. Io e Liliana strabuzziamo gli occhi. Entrambe ricolleghiamo. Io rimango di sasso mentre Liliana scoppia in una risata fragorosa – non molto apprezzata dal mio amico camerunense, che assume un’espressione interdetta e quasi offesa. A grandi falcate, a dirigersi verso di noi è Amr. Il personal trainer di Liliana. Amr, non Amir.

Amr è un ragazzone di un 1,85 m per almen o 90 kg di muscoli, tanto grande quanto gentile e disponibile. Io non vi sono in particolare confidenza a parte salutarlo in palestra, ma pochi giorni fa mi aveva chiesto di uscire e lasciato il suo numero di telefono. Nell’agitazione avevo confuso i nomi e chiamato la persona sbagliata…che mai avrei voluto sapesse di certi anfratti incasinati della mia vita personale…e che ora avevo il terrore potesse riferirlo en passant ad Ahmed, per giunta! Volevo seppellirmi.

Io abbozzo qualcosa di molto più simile a un ghigno e poi oscillo tra la voglia di ridere e piangere. Liliana aiuta a chiarire l’equivoco, per lo meno a Elia, mentre il resto degli astanti ci fissa esterefatto. Amr ride anche lui sollevato, e la sua presenza non viene per nuocere essendo lui giurista di formazione. Nel paradosso delle risa però il mio senso di colpa e di disagio non fa che salire.

Intanto Elia aveva spiegato ai poliziotti l’accaduto senza che io avessi avuto alcun controllo sulla sua versione. Avendo paura delle sue esagerazioni, insisto perché mi informi del suo resoconto. In effetti, gli ufficiali insistono più volte con me per chiarire cosa ci sia effettivamente stato, e io sottolineo come il ragazzo non mi abbia toccata e men che meno abbia mosso alcuna violenza. La condanna e il trattamento in carcere potrebbero diventare pericolosi in casi del genere, a maggior ragione siccome lui è clandestino, senza permesso di soggiorno.

Vogliono che io rilasci una dichiarazione scritta dell’accaduto, e io, Liliana e Amr stendiamo a tre una paginetta in inglese cercando di rendere inequivocabili certi aspetti. Intanto Elia, alquanto surriscaldato già dall’inizio, se ne era andato a a casa, con mio sollievo.

“Perfetto, ora dobbiamo stendere il verbale” – dice un ufficiale. Ovviamente non c’è traccia di computer e l’ufficiale, calmo e professionale, si appresta a redigere a penna un verbale di due paginette protocollo. Io gli siedo di fronte e scrivo su un foglio di carta i miei dati affinché lui li possa copiare, facendomi venire poi la paranoia che il ragazzo avesse potuto in seguito vederli e registrarli mentalmente.

L’originale è terminato - sempre senza che io vi abbia alcun controllo – e voglio che tutto finisca in fretta. “Prima di terminare bisogna farne due copie”. Va bene, due fotocopie e via - penso. Ma ovviamente non vi è traccia di fotocopiatrice. Dopo avere ricopiato a mano le due copie ci dicono che noi possiamo andare, mentre sia Milad che il ragazzo devono ancora restare là per testimoniare. Chissà poi se a lui gli daranno possibilità di parlare o cosa.

Chiamo Milad fuori, e gli allungo una lauta mancia per il disturbo e la malattia. Sono quasi le due di notte. Io e Liliana ci guardiamo in faccia ripetendoci per l’ennesima volta: “Questa è un’altra storia egiziana!!”.

Amr mi accompagna a casa in macchina. Ho abbastanza adrenalina per terminare le valigie, prima di lasciarmi assopire per qualche ora dal caldo paralizzante della mia camera.  

4. Toccata...e fuga

Lunedì 5 maggio 2008

Aspettavo Anna alla metro Opera per andare in palestra assieme. La chiamo per sapere dov’è, e gradualmente ci mettiamo tutte e due a imprecare al telefono contro di noi e contro il suo tassista che non l’aveva lasciata dalla parte giusta del parco, nonostante le indicazioni date.

Approfittando della mia distrazione, un ragazzetto passa e mi palpa la parte alta del braccio che, quel giorno, avevo lasciato inconsuetamente scoperta in un moto di indipendenza e strafottenza, indossando una maglietta...ben a mezze maniche!

- Vaffanculo, stronzo!! – la tolleranza è minima con 40 gradi e gli affronti continui e quotidiani alla tua rispettabilità.
- Cosaaa??! Oooh, stai calma! – fa Anna al telefono pensando dicessi con lei, mentre si lamentava perché le avevo annunciato che non avrei potuto attenderla, per non fare aspettare troppo Ahmed in palestra. I vaffanculo al ragazzo si sommano e si mischiano ai reciproci nostri.

[Si veda anche Di nuovo, touchée]

Lunedì 19 maggio 2008

Oggi facevo con Liliana la solita strada per andare in palestra, dalla fermata Opera alla Courniche El Nil.

A un certo punto sento una stretta di dietro. Ben stretta e profonda. Mi giro e c’è sto ragazzetto grasso (chiatto, per dirla come Liliana, in napoletano) e di massimo vent’anni che sorride e si mette a correre.

Mi ha completamente congelata e non ho avuto la prontezza di rincorrerlo, né ci sarei riuscita con le ballerine, la borsa della palestra e la mia borsa, eppure correva pure piano, grasso com’era. Gli ho gridato dietro un “fucking bastard” ma non sono riuscita a fare nulla di più. Liliana da parte sua gli ha inveito contro una serie di insulti in un arabo così fluente che ci sono rimasta di stucco; solo che poi mi ha fatto notare che si trattasse invece di napoletano stretto

Lui ha continuato a correre e poi raggiunta una certa distanza ha ricominciato a camminare. Allora io e Liliana ci siamo messe a camminare spedite nella sua direzione; lui era già lontano e irraggiungibile, ma al solo vederci reagire si è rimesso a correre a gambe levate imboccando poi le scale della metro. 

È talmente umiliante, frustrante e dispregiativo che mi sono portata dietro per alcuni giorni la sensazione di quel contatto. È un pubblico scherno e attacco al tuo intimo. Inoltre si avverte chiaramente come l’essere occidentale venga considerato come un “ingresso facilitato”.

[Si veda anche Di nuovo, touchée]

Lun 26 maggio

Percorro il solito tratto di Courniche El Nil che mi porta dalla metro Opera alla palestra. Questo tratto della Courniche è piuttosto chic, ed è tutta un cantiere. Vi sono inoltre case particolari, come per esempio quella della vedova di Sadat, sorvegliate massicciamente.

Capita perciò che in questo percorso si concentrino le due peggiori categorie di uomini, e che, per ragioni inerenti alla categoria, queste si presentino con maggiore probabilità sotto forma di gruppo: sono i muratori, e i soldati. Le mie camminate fino alla palestra sono un supplizio ad occhi bassi, tra cori, fischi e versi di tutti i tipi.

A un certo punto mi sento chiamare “mademoiselle”. Che vuoi, faccio finta di nulla e tiro dritto, occhiali da sole e sguardo basso. Mademoiselle..! La voce si avvicina, come mi rincorresse. Mi volto, e mi trovo un ragazzo sui 35, un po’ grassottello, pelato, di quelli dall’aspetto mansueto e timido.

- Mademoiselle, I just wanted to tell you that a guy there took a photo of your back with his mobile...in case you would like to prevent the police.-

Resto piacevolmente colpita e intenerita, ma col sorriso rassegnato.

- Oh, thank you, it’s really very kind of you...but you know… what could I do...
- Maybe, you should put longer shirts that cover you back.
- I thank you for your advice, but I think of wearing clothes long enough, and that my dressing is in all ways respectful of your habits; I do not want to renounce to my freedom of wearing what I want, since I consider it appropriate anyhow. I think that this is their problem, and not mine…
 
Il ragazzo parla calmo, con voce timida e quasi mortificata. Mi dice che lo fanno spesso, di fare foto (del resto mi è capitato anche ad Alessandria al mare, e durante il viaggio di ritorno da Baharia).

Poi mi racconta di come a certe turiste – di quelle che indossano abiti di sole bretelline, o che non si mettono il reggiseno – dei ragazzini gli abbiano tirato giù le bretelle.

Quando me lo dice, mi trovo però a pensare con una punta di indignazione e un inatteso moralismo che a quelle turiste gli stava proprio bene, e che se lo meritavano, razza di zoccole interculturalmente insensibili! Mi stupisco molto di questo moto e mi rendo conto di come in questi mesi, causa le sensazioni negative accumulate sul mio corpo di donna, abbia  interiorizzato alcuni limiti e adattato la mia sensibilità rispetto a ciò che è socialmente mostrabile o meno. 

Poi ci salutiamo e io entro nella barca che ospita la mia palestra.

Martedì 27 maggio 2008

Nel percorso dalla metro all’ufficio un minibus - di quelli sempre carichi e con almeno un paio di ragazzi appesi fuori dalla porta aperta – non si limita a suonarmi da dietro, ma fa finta di venirmi addosso. Sparato, mi sfiora e poi si rimette in traiettoria. E gli stronzi appesi dietro ridono. - Bastardi idioti - penso, o forse pronuncio - schiantatevi! - non ne posso più...grido di rabbia.

3. Psycho Taxi

Ven 9 maggio

Per tornare a casa da Baharia Ezz ci ha messo a disposizione un taxi. L’autista – un uomo grasso dagli occhi porcini e la bocca paralizzata in un sorriso triangolare – si era fatto accompagnare dal figlio, un ragazzetto decisamente poco sveglio e  po’ strabico.

I due avevano un che di inquietante. L’autista non ci guardava mai negli occhi, ma ogni volta incrociavo il suo sguardo obliquo nello specchietto retrovisore. Ripeteva sempre le stesse quattro parole in inglese, e poi scoppiava in una risata isterica e troppo forte.

Per arrivare al Cairo ci volevano circa tre ore. Vinte dal caldo e dalla stanchezza, io e Anna abbiamo chiuso gli occhi, seppure la consapevolezza di essere osservata non mi permettesse di rilassarmi veramente. A un certo punto Anna apre gli occhi e vede che il ragazzo ci sta facendo delle foto!

Durante la sosta all’unico bar esistente nella strada che collega il Cairo con Baharia, incontriamo i due ragazzi tedeschi e la loro guida, Omar. Io e Anna oltre ad andare in “bagno” (latrina nera e maleodorante invasa di mosche e senza acqua corrente, che abbiamo evitato in favore delle dune del retrobottega), volevamo prenderci qualcosa da bere. Ci sediamo al tavolo con Omar, ma i nostri autisti però, e non capiamo il perché, volevano ripartire subito e cominciano a metterci pressione anche abbastanza sgarbatamente.

Omar propone allora di portarci lui fino al Cairo, con la scusa che la sua macchina aveva l’aria condizionata, e concorda con i nostri autisti un punto di incontro alle porte del Cairo. Ma come sempre mi accade mentre tento di seguire le negoziazioni in arabo, quando finalmente riesco a capirci qualcosa la decisione è già stata presa. Ed è così che non abbiamo nemmeno avuto il tempo di dire ai nostri autisti che volevamo anche ritirare i bagagli dalla loro macchina che loro si erano già dileguati nella polvere, con tutte le nostre cose.

Noi abbiamo continuato a bere con calma il nostro drink. Solo dopo, pensando a che, di fatto, se ne erano andati con le nostre cose ed erano già stati pagati, comincia a salirmi un po’ di ansia. Li abbiamo inseguiti ma siamo riusciti a raggiungerli solo alla fine, al punto d’incontro stabilito.

Arrivate sotto casa ha pure allungato la mano con fare lamentoso ed elemosinante. Io la mancia non glie l’ho data. Il suo sorriso viscido è svanito in un attimo e ha continuato a lamentarsi dal finestrino. Non me ne frega, mi hai fatto fare un viaggio d’inferno e andare di traverso la coca-cola, ridendo istericamente per tutto il tempo oltre ad averci fotografato e spiato per tutto il tempo dallo specchietto retrovisore. 

1. Ordinaria incomprensione

Mercoledì 30 aprile 2008

Spesa al supermercato con delivery a casa. Avevo bisogno dell’acqua e non ci penso nemmeno a portarmela a casa da sola.

Ora, io ho la fortuna di abitare in una casa che ha anche il numero civico. Solo che anche il palazzo accanto al mio ha il numero civico. Lo stesso numero civico. Senza né A o B. No, semplicemente, un altro 26.

Al che alla cassa spiego quale palazzo è, “dalla parte di Ismail Mahamood, non dalla parte di 26 luglio” e gli lascio il mio nome. Ma non è chiaro, “Miss Margot”, mi richiama uno, si, glie lo rispiego, prende nota anche lui sullo stesso foglio, tutto chiaro, lo dice al collega.

Arrivo a casa, passano due ore, ancora non arrivano. Poi mi chiamano a casa, ancora mi chiedono quale palazzo è, glie lo spiego, non capisce, non parla inglese benemi passa un altro...alla fine optano per farsi dire il nome dei bauab.

Finalmente suonano alla porta. Mi poggia tutto in cucina. Ambdullillah. Do la mancia, chiudo la porta. Manca qualcosa. La cosa più importante. L’acqua! E richiamali.

- “Hallo? I’ve just received an order, but a box of water is missing”. 
– “Miss Margot? Any problem?” 
– (…). “Yes. I was just saying that…A box of water is missing.” 
- “Two box of water?” 
- “No, one box of water!!” And so on…

***

Poco dopo mi squilla il telefono di linea fissa.

-   Hallo? – (....)
-   Hallo?? – Miss Margot?
   Yes it’s me...?
   Hi Margot, it’s Turkey! (nooo, il consulente finanziario di sta mattina in banca…ma che cavolo vuole…sono le 20.54 di sera)
   Miss Margot, this morning I forgot to propose you some investments..
   Ah, yes, I tell you, I will stay here only 1 year so I don’t think that the investments are for me…
   Only one year? So few…so bad…Are you from Italy?
   …Yes, I’m from Italy…” – “Italy…where from Italy???
   Ehm, Bologna…
   Bologna beautiful Bologna, I love Bologna…only one year, so bad…and what are you doing after…
   Yes, as I told you I am happy with my account, ehm I will come back to Europe…Well, thank you then
   Ok, so bad…and now you have my telephone number, so for any thing you can call me, at home or at the mobile, for anything…
   Oh thanks, so kind of you…ok, good evening…
   And hope to see you everyday at the bank, you are always welcome…
   ….



Giovedì 1 maggio 2008

Arriva Anna! H 00.25 Cairo, Terminal 2. La vado a prendere in aeroporto col tassista di fiducia Hamdy.


Venerdì 2 maggio 2008


Io e Anna andiamo a fare la spesa e ordiniamo la consegna a casa. Quando suonano alla porta, è lei che va ad aprire.

Ragazzo: hi, where I bot it.
Anna: what?
Ragazzo: bot it, bot it.
Anna: Yes. Yes, I bought it.
Ragazzo: ??
Anna: yes! I bought it!!
Ragazzo: Where can i bot it?!
Margot: Mi sa che ti sta dicendo “put it”. Here here, come, put it here.

E così come sempre durante le consegne a casa, questi ragazzetti ventenni
limitano la loro presenza sul suolo domestico al minimo necessario, scappando
furtivamente sulla soglia della porta di ingresso dove attendono la loro
mancia, tanto attesa quanto intascata altrettanto furtivamente. Non so perché
abbiano una tale ansia di uscire.

Comunque, gli arabi non distinguono tra i fonemi “b” e “p”. O meglio, non hanno
la “p”, e la riconducono a “b”.