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2. Una scuola in Fayoum

Mercoledì 03 settembre 2008

Oggi sono andata al Fayoum a vistiare una scuola per accompagnare una giornalista. La classe era mista, in sesso ed età. In maggioranza erano ragazze, in linea con gli obiettivi del progetto.

Presa dall’entusiasmo e dalla tenerezza ho cominciatoa fotografare tanto, mentre la giornalista girava con la sua telecamera. I bambini guardavano fisso in camera ma non sorridevano. Cercavo di catturarne un sorriso, ma non ci riuscivo. 


Dopo un po’ sono riuscita a conquistare quattro di loro, che si sono messe a sperimentare la macchina fotografica. Mi faceva un po’ impressione lasciarla in quelle mani, ma quelle risa non avevano prezzo. Con altri invece, non c’è stato modo. 



C'era una bambina molto bella, dagli occhi azzurri e il velo fucsia, con lo sguardo perso. Per tutta la durata della nostra visita, non sono riuscita a cogliere alcun guizzo di presenza nei suoi occhi. Era come spenta. Un suo compagno, accanto, mi guardava con diffidenza.



                                                                       
La giornalista ha chiesto di poter seguire a casa una bambina dopo la lezione. Era per me la più bella. Vestita con una tunica beige lunga e un velo nero dai ricami dorati, timida; una di quelle che non sono riuscita a catturare e che fuggiva sempre l’obiettivo. 



Siamo passati attraverso stanze senza luce, dalle mura non intonacate e il paviemento di terra e paglia, forse sterco. Abbiamo salito gradini fatti di sassi sbilenchi, tra un sacco di cipolle, una bombola del gas, quattro pentole per terra e il giaciglio della capra. Siamo entrati in quella che era la sala da letto, o il salotto. I muri spogli, i tappeti a terra su cui stare scalzi, e solo una piccola televisione rossa accesa, in bianco e nero e con l’antenna, di quelle che ancora si trovavano all’inizio degli anni ‘80. Mi ricorda quella arancione che avevamo nella casa della nonna. 




La bimba a casa si è tolta la tunica – che ho capito essere il vestito buono per andare a scuola – e il velo. La giornalista era molto dolce. Ha acceso la telecamera, l’ha ripresa mentre faceva i compiti, e poi le ha fatto le domande. La bimba rispondeva con un filo di voce e gli occhi sgranati. Era timida, era imbarazzata, non sapeva che succedeva. La mamma la incalzava con dolcezza, e la aiutava a finire le frasi. Io ho fatto qualche foto. 


                         


Dopo, mamma e figlia ci hanno portato nei campi e la bimba ci ha fatto vedere come, dopo i compiti, aiutava la madre a tagliare l’erba per gli animali.  


Il giorno dopo sono stata male per la mia avidità di immagini. Mi chiedevo perché questi bambini non riuscissero a scioglierci, e sapevo già la risposta, come poi mi ha confermato Khaled. Sono bimbi abituati a sentire le maestre descrivere la loro situazione miserevole e di bisogno, e sono stanchi di essere fotografati per quella che hanno capito essere la loro povertà

8. A scuola sono arrivate le sedie!

Giovedì 26 agosto 2008

È un giorno come un altro in ufficio e tra le tante mail riceviamo un rapporto dal nostro collega sul campo. Hassan è fisso in una delle regioni più arretrate e povere del paese, qualche centinaio di chilometri a sud del Cairo, e lavora nell'area "children at risk", per un progetto di costruzione di scuole.





























Sento la mia collega sridacchiare dalla scrivania di fianco a me, mentre inizio a leggere la sua relazione. Più che altro è un raccont sul sole, la terra, il vento, i bambini e la loro semplicità. Ha uno stile leggero e sensibile, e dopo avere introdotto il contesto comincia a raccontare la sua attività.

Si trattava di aprire un nuovo spazio educativo, una nuova scuola di comunità, e quello era il giorno in cui avrebbero portato i mobili nelle scuole. Il suo racconto si concentrava sull’entusiasmo dei bambini che, contenti e impazienti di vedere le aule arredate, hanno esultato all’arrivo dei mobili e sono andati di persona a prendersi le sedie per trasportarle in classe. Descriveva il momento, facce, sorrisi, espressioni, il rumore, l'energia, risa.

Per come sono sensibile in questo periodo, a me sono uscite le lacrime. Per bisogno di condividere, domando alla mia collega se lo avesse letto. Lei è una bella ragazza di 34 anni, molto self-confident; una di quelle persone che dominano la stanza e sono abituate a ottenere quello che vogliono. Del resto, fa parte di una delle famiglie più in vista del Cairo, è sposata, ha due figlie, e varie governanti, tra cui la tata che vive in casa con loro. Del resto, è facile essere self-confident se nessuno nella vita ti ha mai contraddetto.

“Certo che l’ho letto, è per quello che stavo ridendo! Ma che rapporto è, sembra una poesia. E poi dai…cosa vuol dire che 'sono usciti a prendersi le sedie'! Ma te ci credi?! Io non ce le vedo le mie figlie a fare così.”

Io sono rimasta delusa e amareggiata pensando “ma questa vive in Egitto o cosa? È mai uscita dal Cairo? Lavora per i bambini ma non capisce che i suoi sono dei privilegiati e per il restante 95% avere una scuola è un regalo?”

Ecco, per questo non sopporto questo posto in cui lavoro. 

6. Una bambina in metro

Domenica 17 agosto 2008 

Ero davanti alla porta della metro, al centro, aspettando di uscire.

Alla mia destra una bimba di massimo sei anni. Dalla parte opposta la madre, dall’età indefinibile, certo giovane, ma sciupata e pesante. Era coperta alla maniera della gente più povera, col velo lungo e intero, ma aperto in viso. Portava una busta grande, piena di un misto indefinibile di sacchetti e pezzi di stoffa.

Come sempre all’avvicinarsi della fermata Al Taharir, le donne si accalcano verso la porta e iniziano a spingere, preparandosi a quella che è una vera e propria “espulsione”, dove a volte i piedi nemmeno riescono a toccare terra. Quando le porte si aprono, le donne in attesa di salire vengono avanti senza aspettare che le altre scendano e io ogni volta ringrazio di riuscire ad arrivare al suolo con entrambe le ciabatte ai piedi, e soprattutto di non cadere con un piede nel largo varco che separa il vagone dalla banchina.

La donna mi guardava. Io distoglievo lo sguardo, imbarazzata dal mio benessere. Il treno già rallenta e la bimba vacilla vistosamente, mentre la donna le dice qualcosa che ovviamente non capisco.

Allungo un braccio istintivamente verso la sua spalla per sostenerla. Non la afferro, solo pongo una mano come contrappeso nel caso avesse perso l’equilibrio. Al mio contatto, si gira e mi guarda. La mia mano è ancora lì, non glie la sto porgendo, ma lei, come se fosse la cosa più naturale, la afferra, e poi torna a voltare, tranquilla, lo sguardo verso la porta. La madre – occupata con due mani a sollevare il borsone, mi ricambia con un sorriso riconoscente ma altrettanto naturale - forse compiaciuto di vedere una ricca occidentale aiutare la sua bambina.

Le porte si aprono, la madre riesce a sgattaiolare subito fuori trovandosi a un’estremità della porta. Io sono al centro, e ho tra le mani questa stretta confidente. La tengo stretta e poi quasi sollevandola da sotto le braccia la aiuto a oltrepassare quel varco, non senza esitazione data la spinta contraria della massa entrante.

Dopo il salto la lascio. La madre mi stava sorridendo tranquilla. Ho ricambiato il sorriso con affetto, salutato, e sono andata via. Non so se glie l’avesse detto la madre di prendermi la mano sperando facessi loro la carità per il Ramadan; non è detto… di fatto nella carrozza delle donne è naturale suddividersi e farsi carico di queste mansioni coi bambini. Non potevo saperlo, ma mentre mi allontanavo con ancora il calore di quella stretta, nel vuoto che sto vivendo, ho sentito come se l’avessero fatta a me la carità. 

[Si veda anche il post Donne e bambini]

10. Donne e bambini

Mercoledì 4 giugno 2008

Credo che una delle più belle esperienze che quest’ anno mi sta regalando sia la metro e suoi i vagoni femminili. Uno spaccato della vita private delle donne tra le donne, al di fuori del loro ruolo di mogli e dell’immagine di fronte al mondo maschile.

La metro è piena di bambini piccolissimi, tutti portati in braccio avvolti in un panno - dato che i marsupi e le carrozzine paiono non esistere.

Ogni tanto una donna si alza il velo scoprendo un bambino attaccato al seno. Ieri ce n’era uno che avrà avuto sui due anni. Se ne è stato pacifico sotto il velo a poppare facendo spuntare solo una mano, con cui cercava e toccava la mamma, o giocava con le donne lì intorno.

Scopro una dolcezza ancestrale e sconosciuta di queste madri coi loro bambini. Queste donne giocano e se li stringono come non ho mai visto fare in Europa, ora. Forse le nostre nonne sì, facevano così, e mi viene in mente la voce cristallina di mia nonna mentre cantava le filastrocche e faceva saltellare qualche nipote sulle ginocchia. Ma è come se per la prima volta vedessi una madre, oppure un modo di essere madre che non avevo mai conosciuto prima. 

Donne che sono una cosa sola coi loro bambini, che giocano con loro e ridono come bambini, che sembrano bambine anche loro, e sorelle delle loro figlie più grandi.

Se nella metro non c’è posto e una donna deve restare in piedi, oppure ha troppi figli da badare, le donne si passano, si scambiano e si tengono i bambini. Con molta probabilità, il bambino comincia a passare di ginocchia in ginocchia, tra le mani di lunghe file di donne in niquab. Mi chiedo cosa pensino i bambini di queste maschere nere, tutte uguali e irriconoscibili.

Donne e bambini sembrano condividere tutto, ritmi, spazi e, per quanto riguarda i bambini più grandi, anche responsabilità. I ragazzi più grandi, fino ai 10-12 anni, seguono la madre nel vagone delle donne, badano i fratelli più piccoli e portano le borse e pesi. Oggi ho visto un ragazzino sui dieci anni salire con la madre e portare un sacco grande in testa come fanno le donne - anni luce dai bambini arroganti e capricciosi con le scarpe Nike che vedo in Italia.

Mi rendo conto di quello che è stata la vita delle donne per millenni, prima che le contraddizioni di questa nostra società occidentale ci portassero a rincorrere modelli di felicità inconsistenti, che in realtà, quanto più ti trascinano lontano dalla naturalezza della vita, tanto più ti rendono impossibile essere felice. 

In questo contesto, d’un tratto mi si illumina un testo letto all’università per il modulo di storia sociale, nell’esame di storia moderna. Un tale storico del ‘500 di cui non ricordo il nome si esprimeva sul ruolo della donna e dell’uomo e sulle relative intelligenze. Senza entrare nel merito delle idee discriminatorie espresse, mi colpì che uno degli argomenti apportati per dimostrare l’inferiorità naturale della donna era proprio l’assimilazione di questa coi bambini - intesi questi come esseri umani in stato pre-logico: dalle fattezze fisiche (senza peli, senza forza), alle dinamiche emotive, ai ritmi di vita, tra donne e bambini non vi era soluzione di continuità, vivendo in piena simbiosi e identificazione reciproca.

Di vero c’è solo che in società tradizionali (dove la ripartizione dei ruoli è fissa e rigida nonché a scapito dell’indipendenza femminile) e in più basate sul concetto di “segregazione sessuale” (ovvero dove un rapporto diretto tra uomo e donna può esistere solo all’interno di ruoli familiari codificati – fratello, padre, marito, zio… - si leggano a questo proposito i lavori della sociologa Fatema Mernissi), le donne non hanno altro che i loro bambini come vero contatto emotivo e d'amore. E conoscendo come si basano qui i rapporti di coppia nelle classi medio-basse, so che di fatto è così. Tuttavia questa naturalezza affettiva che da noi non ho mai visto, e mi strega.

Mi chiedo anche, di fatto, cosa abbiamo guadagnato io e le mie amiche; a quasi trent'anni ancora a barcamenarci tra una carriera che non decolla a causa del precariatola consapevolezza che comunque potremmo perderla in un attimo se incinte, e bloccate tra coetanei a cui la prospettiva di avere figli non sfiora nemmeno l'anticamera del cervello. 

Dall'altra parte ci sono poi le donne che hanno represso l'istinto di maternità - perso non si sa in quale fase della nostra educazione - marginalizzato come se fosse il retaggio di una società antiquata. Queste donne ora mi fanno paura, carrieriste e denaturalizzate; perché vi è una bella differenza tra l'entrare in contatto con la natura della propria femminilità, e il pensare che il desiderio di un figlio sia solo il bisogno "indotto" di un mondo antiquato

O ancora, è forse sana una società che risponde alla frustrazione femminile con l'attenuante che "tanto ora i figli si cominciano a fare a 40 anni" - magari con compagni di ormai 50 anni che nel frattempo forse sono maturati - là dove di fatto non lascia altra scelta? Io non lo vedo tutto questo tempo, e  non siamo giovani per sempre come ci vogliono fare credere. E poi non è solo perché una cosa è possibile che è desiderabile o giusta. Tutto ciò è perversoNoi occidentali in questo siamo diventati perversi.

***

C’è una donna, giovane, che vedo spesso la mattina in metro. Non è velata e spesso porta maniche corte. Dall’abbigliamento e la pettinatura mi sembra essere cristiana copta. Non ci salutiamo, ma ci facciamo cenno e sorridiamo.

Ero in piedi davanti a lei e le davo la schiena. Lei da dietro mi ha messo a posto la maglia, che forse era andata un po’ in su.

Lo stesso mi è capitato nel bagno pubblico di un centro commerciale. Ero appena uscita dal bagno e davanti allo specchio mi lavavo le mani. Non mi ero tirata giù bene la maglia, e la donna delle pulizie mi si è avvicinata e me l’ha sistemata.

Queste donne, quelle di classe più bassa, accudiscono, curano, esprimono la premura e solidarietà in ogni gesto verso le altre donne, verso i bambini degli altri e verso il mondo intero.

Martedì 17 giugno 2008

Oggi ho visto una donna, tutta coperta col niquab, coi suoi tre bambini maschi.

I primi due avranno avuto rispettivamente cinque e sette anni, mentre il terzo era piccolo, di un anno e mezzo. Lei e i due bambini più grande si passavano il più piccolo in continuazione: ho visto il fratello di 5-6 anni tenere in braccio questo pupazzetto e poi passarlo al fratello più grande che lo sballottava e gli dava i baci.



























La madre era tranquilla e li lasciava fare. Io avevo paura che gli cadesse e mi stupivo sia della tranquillità della madre, sia dell’affetto e della responsabilità degli altri due fratelli, entrambi maschi tra l’altro. Una scena così io non l’ho mai vista in Europa, dove i bambini sono spesso egoisti, dispettosi e viziati. Io vedo un amore e un affetto tra queste persone che non ho mai visto; così semplice e autentico che mi commuove.

In generale, mi sono più volte sorpresa a guardare le dimostrazioni di affetto tra bambini e fratelli, o le premure e i giochi degli uomini (a partire dagli adolescenti) verso bambini e bambine piccoli.

7. I bambini hanno fame

Venerdì 2 maggio 2008

Oggi per la strada verso l’ufficio, una bambina si stacca da un gruppetto di quattro o cinque bambine e mi viene incontro porgendomi la mano per stringermela. Con due occhi aperti, sorridenti, incantati, felici mi salutava - “Hello! hello!” – tutta contenta che mi aveva stretto la mano. Io poi forse quel giorno ero particolarmente “esotica” con gli occhiali da sole e i capelli, biondi, per una volta sciolti.

Sabato 3 maggio 2008

Bimba che si avvicina alla 
macchina ci chiede i wafer
Stavo camminando per una stradina con Anna. Una bambina ci è venuta vicino continuando a dire qualcosa che non capivo. Ho pensato volesse soldi e cercando di non intenerirmi ho rifuggito l’istinto di darle qualcosa, sapendo quanto fosse inutile.

Stavo bevendo un succo di frutta in bottiglietta e d’improvviso mi rendo conto come fosse quello il centro della sua attenzione: la bimba mima il gesto di bere. Appena me ne sono resa conto le ho dato la mia bottiglietta, già mezza vuota, e lei si è allontana bevendola.

Mi sono accorta poi che avevamo con noi un’altra bottiglietta intera e che… ma lei era già lontana. 


Un paio di giorni fa a Sakkara mentre ero ferma in macchina, una bambina si avvicina perché mi vede mangiare i wafer. La fine dei wafer è mostrata nella foto qui sopra.

Lunedì 19 maggio 2008

Questi sono tempi difficili in Egitto, le cose vanno proprio male. La food crisis è al suo culmine, i prezzi sono schizzati alle stelle e le persone non riescono più a mangiare. Gli Egiziani sempre più poveri…a volte non ce la faccio. 

Sulla metro ci vanno notoriamente le persone di classe medio-bassa. Nonostante ciò, si aiutano tra loro. Quando passa un venditore di fazzoletti, gli porgono sempre un pound, senza nemmeno sempre prendere i fazzoletti. E qui i mendicanti sono veri invalidi o poveri. In particolare in questi giorni vedo sempre un uomo cieco.

La reazione è stata invece diversa quando una volta è salita una bambinetta sui 6 anni, completamente velata, vestita col tradizionale abito lungo, blu. Anche lei vendeva i fazzoletti, ma nessuno glie li ha comprati. Mi domando se per un qualche motivo etico riguardante il lavoro infantile.

Sabato 30 maggio 2008

Ho dato il succo di frutta al mio bimbo per strada, quello che lavora sotto casa mia. Non credeva ai suoi occhi,e non capiva come e se doveva accettarlo. E poi da lontano mi sono fermata a guardare come ha smesso di lavorare e si è andato a sedere in un angolo all’ombra per berselo. Piccolo…Il giorno dopo mi è rivenuto vicino, si ricordava di me. Solo che io non avevo nulla ed ero al telefono in mezzo al traffico, per cui non ho potuto badargli…

Domenica 31 maggio 2008


Strada Shagarett Al Dorr, sotto casa mia, h.8.00. Un bambino raccoglie da terra, vicino ad alcune piante e arbusti piantati per strada, un vaso di terracotta poggiato lì accanto. E ci beve dentro.

Sabato 14 giugno 2008



Questa mattina per la strada per andare da Liliana, vicino a strada 26 di luglio, vedo tutti i bimbi a vendere i fusticelli di erbe.

Cerco tra gli altri il bimbo che conosco, ed è lì. Sono in tutto tre bimbi piccoli piccoli, di non più di sei anni. L’altro giorno due si prendevano a botte, come due adulti. Poi ce n’è uno più grande, pure un po’ ciccio, che ne può avere al massimo otto e che già vende con l’insistenza di un adulto. Mentre i tre piccolini sono ancora timidi. E infine una ragazzina, forse sui dieci anni, velata.

Uno dei piccoli si avvicina, quello moro. Io non so fare altro che accarezzargli la testa. Gli altri due vedendo il loro amico che attirava le attenzioni, si sono precipitati, tutti gridando “madame, madame!”, ognuno che voleva vincere sugli altri. Poi arriva il bimbo grande, di gran lunga più arrogante. La ragazzina si avvicina per ultima timidamente, e perché il gruppetto ormai si era formato. Erano tutti intorno a me che sgomitavano, e si urlavano l’un l’altro di essere arrivati prima.

Io sapevo di avere molti spicci, per tutti. Mi ero ripromessa di non dargli soldi. Ma questa volta non ce l’ho fatta e ho messo mano al portafoglio. Loro continuavano a lottare. Ho fatto il gesto con la mano perché aspettassero. Si fermavano mezzo secondo e ricominciavano, il bimbo moro in prima fila, perché era stato il primo ad avvicinarmi. Il mio bimbo restava più in disparte. Una, due volte ancora ho dovuto fermarmi e fare con la mano il gesto che fanno loro per dire “aspetta” – equivalente al nostro “ma che vuoi?!”.

Ho tirato fuori cinque pound contati, e per un attimo ho pensato che non sarei riuscita a distribuirli, tanto si affannavano e dimenavano; fino a che non hanno capito che ce n’era per tutti e si sono calmati. Fremevano ma hanno aspettato il loro turno. Il bimbo moro moderava, e sottolineava ogni consegna con un “Ok”. Infine è stato lui quello che è restato per darmi il mio mazzetto di menta. - Malish, malish (va bene così) - Thank you!

Ora mi sono fregata, e non mi lasceranno più vivere. Sono arrivata a casa di Liliana col cuore sciolto e anche sentendomi una stupida per avergli dato soldi. 

1. Lettera a Bruxelles

Venerdì 14 Marzo 2008

Questo venerdì l’ho passato in casa. Internet del vicino ha funzionato per un po’, e sono riuscita a scambiare qualche mail con i ragazzi di Bruxelles. Quanto mi mancano.

Poi ho attaccato i disegni dei bambini ai muri (del calendario del lavoro); poi sono andata in libreria a comprare un libro, un romanzo egiziano molto famoso, The Yacoubian Building, di Alaa Al Aswany; e poi a casa a scrivere, a ricordare, a digerire.


Cari amici,

È venerdì e quindi io sono a casa (qua la settimana lavorativa va da Sun a Thu), e trovo l'Internet del vicino in un raro stato di grazia, per cui finalmente posso leggermi tutte le vostre mail, da due settimane a questa parte.

Purtroppo dall'ufficio non riesco a fare nulla, né scrivere mail né vedere facebook, e non ho skype. Ancora non ho internet in casa, spero di riuscirci presto: sarà l'ultima vera tappa per assestarmi. Intanto rido da sola e mi commuovo leggendo le vostre cazzate, sempre nuove e originali...

Non so davvero da dove iniziare a raccontarvi. Forse dall'ultima parte. Sono tornata da poco da una settimana di missione nella penisola del Sinai, dove siamo andati a monitorare dei progetti nelle comunità dei beduini. Mi sono presa tanti thè nel deserto nelle loro capanne, con queste donne bellissime e misteriose e questi bambini liberi. E tanta tanta povertà; appena posso metterò le foto su facebook.

Queste donne che non avevano niente ti accoglievano come se fossi un regalo, e mi si scioglieva il cuore con questi bambini, piccoli, che nella loro vita forse non avevano mai visto un'occidentale, o non capivano perché ero senza velo o coi capelli chiari. Non riuscivano a staccarmi gli occhi di dosso; alcuni avevano paura e scappavano. Poi mi prendeva uno sconforto senza fine pensando a che le cose non andavano assolutamente bene...e non vedevo davvero nessuna via di uscita.

In questi villaggi, quando arriva un forestiero, uomini e donne si dividono, e si raggruppano ognuno in una differente sala. La prima volta che sono entrata "dalle donne" ero quasi spaventata.

Immaginatevi 20, 30 fantasmi neri di cui si scorgono, da dietro una sottilissima fessura nel "niqab", solo occhi bellissimi, orientali, con un giro di matita nera. Alcune avevano il viso completamente velato. E' stato emozionante quando poco a poco hanno cominciato progressivamente a svelarsi. Quanti strati, quanti modi, quanti lacci...

Alcune si alzavano il velo da davanti agli occhi, altre si levavano tutto il niquab da davanti al viso e restavano solo col velo normale, scoprendo visi bellissimi di mamme giocose e ragazze sorridenti. Bastava l'avvicinarsi di una voce maschile dall'esterno, e in un secondo avveniva la trasformazione: in un attimo non potevi più la persona con cui stavi parlando poco prima.

Il deserto è stupendo. Il territorio dove siamo stati era tutto un incrociarsi di checkpoints, data la vicinanza a Gaza. Una volta me ne stavo andando in giro per la spiaggia, attorno all'hotel, e una guardia mi ha fermato e mi ha detto di rientrare. C'è il coprifuoco in quella parte di spiaggia...

Questo mondo arabo è ricco e intenso, ma duro. Non pensavo potesse essere così. Sapevo che avrei dovuto prestare più attenzione a certe cose, all'abbigliamento soprattutto, ma non mi immaginavo fino a questo punto. Sto cercando di capire come viverlo al meglio. Lo so che sono legittimata a stare svelata e a vestirmi come voglio (nei limiti della loro decenza ovviamente). E le persone non ti giudicano per questo: anche il musulmano più arrogante e estremista (almeno qui in Egitto) non giudica una cristiana (perché ovviamente qui dire di non essere credente, non è un’opzione) perché non si vela; semplicemente sa che abbiamo tradizioni differenti. Anzi, il velarmi al Cairo sarebbe secondo me più simile a un insulto secondo me, come dirgli: non hai raggiunto nemmeno un grado minimo di civiltà per comprendere questa differenza di tradizioni.

Nella pratica però è diverso, forse davvero è il colore dei miei capelli, ma camminare per strada è davvero pesante, e ancora non ci ho fatto l'abitudine. E poi non sono soltanto gli sguardi per strada. E' tutto un particolare tipo di costrizioni di cui è intrisa la società. So che non posso sorridere ad un uomo con la spontaneità con cui potrei farlo in Europa, perché significa certe cose (già incappata in fraitendimenti), so che non posso dare per prima la mano a un uomo, ma aspettare che sia lui a darmela: è considerato sconveniente che un uomo e una donna si tocchino, anche solo per stringersi la mano...solo alcuni uomini te la porgono; ad altri, se la porgi, te la stringono ma malvolentieri...E poi non esiste un minimo di fisicità e sensualità in niente...In casa mi sparo della musica latinoamericana per ricaricarmi perché mi sento a dir poco ingabbiata...sta arrivando l'estate e non oso immaginare a come potrò/dovrò vestirmi.

Cari tutti, queste alcue impressioni sparse. Vi terrò aggiornati più spesso in futuro appena avrò internet. Penso molto a Bruxelles e alla nostra vita là.

A presto. Un abbraccio,

--
Margot

5. Sinai: ritratti di donne

Penisola del Sinai – 07-13 marzo 2008

La sabbia tra le mani

In questa comunità, un’anziana donna mi invita a rilassarmi sul mucchio di sabbia – parte di un cantiere – su cui stavo guardando i bambini giocare. Io esito; la sabbia è un piacevole ricordo di bambina, ma ora è scomoda, invadente e fastidiosa.

Lei invece ci si butta, si siede, e con la mano ne appiattisce un po’ al suo lato, con dei colpettini, e mi fa segno di sedermi. Ne prende poi una manciata, la sbriciola, se la rigira nelle mani, e mi sorride. Mi sta dicendo che è piacevole da tenere nella mani, è fresca.

Una bambina mi dà un bacio e la madre insiste perché mi regali la sua collana di perline gialla e blu. Io cerco
di rifiutare, perché purtroppo non ho nessun regalo da dare in cambio, ma non me la danno vinta. E poi mi chiedono se sono sposata e ho bambini.

L'accoglienza

In questo sito sono particolarmente poveri. Le donne mi aspettavano sempre tutte assieme in una sala, e mi hanno accolta in una maniera particolarmente calorosa. Vi è sempre una specie di “matrona” nel gruppo, che parla con “lo straniero”, spiega e coordina le presentazioni, offre il thè. Tutte si sporgevano per stringermi la mano, le bimbe ridevano, la “matrona” mi teneva la mano e mi tirava verso l’interno. Purtroppo non c’era abbastanza tempo: “un’altra volta allora ti fermi di più!”, mi ha detto.

E’ difficile gestire
questo entusiasmo (per me) immotivato, la consapevolezza delle aspettative riposte dall’altro, questa sensazione di responsabilità, e di impotenza. Mi fa sentire piccola. Quando esco dalla “casa delle donne”, la mia ospite mi sistema la stola sulla spalle.

***

Insieme a Rhim ho visitato altre donne. Quelle di oggi erano diverse, coperte quasi integralmente. Alcune si aggiustavano sempre il nikab, stringendo quanto più la fessura attorno agli occhi; altre si tiravano giù il secondo velo, coprendosi completamente anche gli occhi. Seppur coperti, si riuscivano a distinguere bene sotto il velo. Altre avevano i guanti; altre ancora stringevano la mano da sotto il velo. Una ragazza aveva un neonato (quanti bimbi piccoli ho visto oggi!), e per allattarlo se lo è infilato sotto il velo - che la copriva per metà - dove teneva il seno scoperto. Quando si è sollevata il velo e per ficcarci sotto il bimbo, non ha avuto tuttavia reticenza a mostrare il seno. Tra donne, è tutto naturale.

“Ma io ti amo!” - 
Dialogo tra una coppia di beduini 

Lei è la donna bellissima della foto. 
Lui è un uomo anziano, di almeno vent'anni più vecchio di lei.

- Lei, rivolta al mio collega Khaled: Io non ho diritto ai sacchi di riso, perché sono la sua seconda moglie, perciò non sono beneficiaria del programma. Che dire, ho sposato l’uomo sbagliato (ammicca al marito, sorridendo). E che devo fare ora, chiedo il divorzio? (ride)
- Lui: Eh sì, bisogna che chiedi il divorzio!
-
Lei: Ma io non mi voglio divorziare da te, io ti amo!
- Lui: Beh, se mi dessero 15.000 pounds, io mi divorzierei da te!

- Lei: Va bene, allora divorziamo, ti prendi i soldi, però poi fammi restare con te.
(ridono assieme).
Mi è parso uno scambio di affetto tanto dolce, tra una donna giovane e bella e il suo marito anziano,
che si vogliono bene sinceramente, in una condizione di estrema povertà. (Per dare un’idea dell’abisso economico: quello che per loro corrispondeva ad una somma da lotteria era inferiore a un mio stipendio mensile).

Mi metto il velo
Oggi mi sono velata, e devo dire che va molto meglio. Non so se si trattasse di un miglioramento oggettivo o se fosse un’impressione personale, perché mi sentivo più rilassata. In ogni modo è il risultato che conta, e io mi sentivo più a mio agio. E certo non mi costa nulla pormi un velo in testa, tanto più che qui nel deserto, tra il vento e la sabbia è una vera e propria esigenza - e scopro in un istante quali siano le origini di questa usanza. Tutti si coprono, anche uomini, bambine e bambini. Non sono rari gli uomini che si coprono anche la bocca. Sanno girare, piegare e fissare il velo in modi diversi, creando la versione primordiale del niquab.

Al velo sono stati attribuiti nel tempo strati di significati legati alla decenza, alla protezione dagli sguardi indiscreti, al rispetto; significati che la religione musulmana ha fatto propri e acuito. Ma sono convinta che il suo uso nelle zone rurali sia ancora legato a una componente essenziale del suo significato: quella funzionale, componente con la quale altrove si è completamente perso il contatto nel tempo.


Alle origini delle usanze e delle tradizioni, anche quelle che ci sembrano più inspiegabili e arbitrarie, c’è sempre una relazione diretta con una condizione oggettiva; una ragione, un motivo, un collegamento col mondo dei fatti e della natura. Nel perpetuarsi e nelle ripetizioni dell’usanza, durante le generazioni, questo motivo iniziale viene progressivamente dimenticato, e resta solo la forma finale, il rituale.

***

Oggi ho una maglia un po’ più scollata. Appena toltami la felpa, noto che una delle partner governative fa notare qualcosa in arabo a Rhim, perché me lo traducesse. Ho capito subito di cosa si parlasse: della spallina del mio reggiseno che spuntava da sotto la la maglia...

Nekhel


A Nekhel, al centro del Sinai, ci siamo fermati in un piccolo alimentari. Al banco, un uomo e la sua donna, coperta col niquab. Mi ha osservato intensamente con quegli occhi neri, da dietro la sua “maschera”. Al momento di pagare ho chiesto a Kassem di tradurmi il prezzo. Solo a quel punto ha domandato “ma non parla arabo?” – “No, è italiana”, le ha detto Kassem.

Non so perché, ma il suo sguardo si è rilassato, e ha detto qualcosa; “she says you are very beautiful”, traduce Kassam. Ringrazio in arabo. Sorride, si avvicina, allunga le braccia, mi prende una mano e mi bacia, con le labbra coperte dal velo. Ricambio, entrambe sorridiamo, lei solo con gli occhi. Mi ha riempito di calore, e quando me ne sono andata di nuovo, si è protesa verso di me, e io le ho preso una mano salutandola.

Io avevo il capo coperto da una sciarpa legata all’indietro come un concio, in una maniera non tradizionale; in più ero vestita con pantaloni sportivi e una felpa. Per essere araba
forse sarei stata un po’ trasgressiva, e lo sguardo indagatorio o confuso dell’inizio poteva essere forse dovuto a un pregiudizio. Tutto si è ribaltato comunque quando ha saputo che ero italiana, forse per l'entusiasmo di vedere uno “straniero”, per di più col velo.

5. Khan el-Khalili e Bab Zuela

Sabato 23 febbraio 2008

Ieri con Sara siamo andate ai mercati di Kan Al Khalili (quello turistico) e Bab Zayla (fuori dagli itinerari noti), addentrandoci sempre più nella parte popolare. Ora capisco perché Zamalek è considerata essere la zona bene. Ho comprato delle sciarpe bellissime per 3 euro e un paio di ciabattine rosse fiammanti. Il contatto con questa vita brulicante è bellissimo. E’ inutile che a parole descriva atmosfera e colori.

Purtroppo non riesco nemmeno a fare foto in queste circorstanze. Sento di rompere l’osmosi con le persone, e interromperei lo scorrere delle emozioni sul mio corpo, proiettandomi in una dimensione estranea, risucchiando e annientando la spontaneità dei loro sorrisi, o incanalando forzatamente la direzione dei loro sguardi. So che non posso più fotografare le scene che amo di più. Un po’ mi sono rassegnata a sentirle solo sul momento, sapendo che prima o poi si perderanno nel marasma dei ricordi. Le immagini e la composizione delle situazioni specifice se ne andranno, però so che manterrò il ricordo dell’intensità e della genuinità dell’emozione provata.

Per i bambini, come previsto, eravamo un’attrazione. Provavano le poche frasi in inglese imparate a scuola: welcome, hello, welcome to Egypt, happy new year. Ho sentito un dito che mi toccava la spalla. Volevano sentire se avevamo la loro stessa consistenza?

Una vecchina ottuagenaria ci ha seguita continuando a dire “hello”, e poi toccandoci. Voleva soldi. Gli uomini ci guardavano come esseri strani, ma non erano molesti. In generale sembravano rispettosi; o forse sono timidi. Abbiamo preso del pane in una delle bancarelle sulla strada, quella che ci sembrava più pulita. Per il resto, davvero il peggio della sporcizia...e poi capre, conigli, galline, gatti, cani...L’atmosfera era serena comunque. Abdel l’altro giorno mi ha detto che gli egiziani “are not angry with their lifes”. Stanno bene nella loro situazione, è vero, almeno così sembra. Certo, il loro fatalismo certamente aiuta.


E’ finita la settimana di spaesamento. Ora sta iniziando l’appropriazione di questa città. E piano piano mi staccherò dal mio passato più recente, sfumandone i ricordi e passando definitivamente al capitolo successivo.Mi sento già meglio. La casa e la presenza di Sara certo fanno tanto, e anche aver aperto un conto in banca. Ora sono in quel periodo dove è grande l’impulso a scoprire, e nello stesso tempo ci si sente un po' più a proprio agio, seppur ancora disorientati.



Lunedì 25 febbraio 2008

Lo smog mi uccide. E ho paura dell’acqua del rubinetto. Oggi durante il security briefing il tipo mi ha terrorizzata a suon di “virus that squat in you liver”. Penso a quanto ne risentirà il mio fisico per questo anno qui. Sogno le colline toscane, gli aperitivi all’aperto, le strade di Roma, la possibilità di mettermi un bel vestito, i giri in bicicletta. Quanto è malsana la vita qui. E loro non lo sanno, camminano tranquilli nello smog. E mi chiedono perché mi imbavaglio, e io cerco di fargli capire che quello che respirano è avvelenato, ma loro mi guardano come pazza.
***
Due giorni fa un mio collaga, Mohamed, mi ha chiesto se potesse farmi una domanda.
-
Do you live alone or with your husband? Are you married?
– No, I am not married. Here I live alone, for the moment I am hosted by a friend
– Ah, do you live with a friend?
– Yes, an Italian girl, but I will move soon to live alone.

Solo a quel punto mi ha detto che se mi può far piacere, mi potrebbe accompagnare a visitare la Old Cairo. Io gli dico di sì che mi interesserebbe molto - anche se non sono molto convinta di andare con lui. -
And obviously it’s for free, you can trust me, I do not want anything, you know what I mean...!- ha aggiunto.

Non sono sicura di capire cosa intenda in realtà, ma certo
all’inizio credevo che si interessasse del mio stato civile per fini suoi...in realtà era solo per constatare le precondizioni per invitarmi: credo che se fossi stata sposata non avrebbe mai osato invitarmi! Ha poi voluto sottolineare come non ci fosse nessun interesse sotto.