7. Di nuovo, touchée

Lunedì 22 settembre 2008

Oggi quando stavo entrando in metro, di nuovo mi hanno toccato. Quanto è umiliante e frustrante. 

Erano in quattro. Tre sono scesi velocemente dalle scale, metre io stavo salendo. L’altro ha indugiato, si è fermato sugli scalini, nella mia traiettoria, aspettando che io salissi e mi spostassi per non andargli addosso, e ha allungato la mano. 

Come sempre quando realizzi, loro sono già lontani. Io e Liliana gli abbiamo urlato insulti, tra cui “porco” in arabo. E loro ridevano, che odio! 

Le guardie erano poco più in là, dentro alla metro, e hanno detto che non possono oltrepassare i cancelli della metro; una ragazza egiziana ci ha appoggiate sostenendo animatamente, in arabo, che o fuori o sulle scale della metro loro possono comunque fare qualcosa se succedono queste cose! Che palle, come mi fa sentire male. 

È la seconda volta che una donna egiziana interviene in nostra difesa in un episodio di molestia. La prima volta era stata ad Alessandria. Penso sia la prova che anche loro sono esasperate.


[Si veda anche Toccata e fuga e Il velo: decenza o intrigo?, quest'ultimo riguardo le molestie alle donne egiziane]

6. Un' altra vita

Venerdi 26 settembre 2008

Oggi è venuto il dottore. È da un po’ che ho degli strani dolori alle articolazioni delle mani e l’altra settimana mi si è gonfiato un dito senza ci fosse stato alcun trauma; dovrò fare delle analisi del sangue per escludere malattie autoimmuni.

Oggi non mi sento bene. Ho un mal di testa terribile e la mente alterata, come in loop. Mi sono presa dell’efferalgan ma non mi è passato. Mi rendo conto che Ahmed mi ha chiamato un’ora fa, ma dato il mio stato mentale mi sembrano passati appena cinque minuti. 

Domenica 28 settembre 2008

Oggi mi è successa la stessa cosa di cui Rania si è lamentata tutto il tempo giovedì scorso al lavoro: qualche perdita che non si era trasformata in un vero e proprio ciclo.

Per un giorno intero è andata e tornata dal bagno domandandosi perché non gli venissero come si deve. Non capivo perché la facesse tanto grave; io di me ho pensato semplicemente che mi stessero arrivando un po’ esitanti e con qualche giorno di anticipo, perché no, capita. Con questo caldo poi. E invece lei seria e direttamente mi ha chiesto: “potresti essere incinta?”.

Come svegliatami da un’amnesia durata dieci giorni, stupita della mia risposta e come se i ricordi appartenessero a un altro, ho risposto “sì”. In che parte della mia memoria si era rifugiato il ricordo di quella notte durante questi ultimi dieci giorni? Era ovvio che era successo un mezzo pasticcio. Perché non me ne ero preoccupata e come potevo non averci pensato prima? Non mi sono nemmeno posta il problema di andare a controllare nel calendario a che giorno fossi. Sì, certo. Solo ora mi accorgo che era il quindicesimo.

Ovviamente, non avendo minimamente realizzato il rischio, la possibilità di una pillola del giorno dopo nemmeno mi aveva sfiorato. La stanchezza, la fatica di comunicare, il pensiero di cercare un medico, chiedergli la prescrizione, spiegargli, sentire la riprovazione, il giudizio, io la bionda che viene in Egitto e…

Ma tutto ciò per ma non vuole dire niente. Non c’è difficoltà che non abbia affrontato da sola, verità che non mi sia svelata, diritto per cui non mi sia battuta, a testa alta. Come è potuto succedere; io che sono sempre onesta con me stessa, che mi metto davanti allo specchio scevrando le parti di me più scomode, costantemente desta, lucida e  impietosa, con me stessa in primis… Che cosa mi sono voluta nascondere?

Ero imbambolata e immobile davanti a Rania, con la paura di stare svelando a una mia collega un segreto. “Si chiama innestation spotting – continua lei – e può avvenire dieci giorni dopo la fecondazione. Può dare luogo a un leggero sanguinamento. Io l’ho avuto in una delle mie gravidanze”.

***
In camicia da notte, sola nel mio appartamento del Cairo, tra le voci, le urla, i clacson e la festa delle notti del Ramadam invadevano la stanza, vedo il pallino del test colorarsi lentamente di rosso, ed è stata l’emozione più grande della mia vita. Sapere che c’era qualcosa dentro di me che viveva ed era profondamente mio. La semplice verità era che io volevo rimanere incinta, ora e da lui.

Stavo parlando in Skype con Anna e glie l’ho detto. Poi ho interrotto la comunicazione per chiamare Sara, perché dovevo trovare un ginecologo. Poi ho mandato un messaggio alla mamma.

Lunedì 29 settembre 2008

La prima cosa che mi ha chiesto Rania quando sono entrata in ufficio è stato: “allora?”

Taccio. Non volevo rischiare che si spargesse la voce. Ma la mia faccia parlava da sola. Immobile, seria. “Congratulazioni!” esclama lei.

Ho pensato a tutte le donne che se le possono vivere col sorriso quelle congratulazioni, perché hanno magari una vita normale, un lavoro stabile, una casa, la città in cui hanno scelto di vivere, una famiglia su cui contare e un uomo di cui si possano fidare; o se non tutte, per lo meno qualcuna di queste cose. Ho pensato che è stato bello comunque averle sentite queste congratulazioni e avere fatto finta che potessero davvero essere per me. 

Martedì 30 settembre 2008

E’ bello pensare di essere in due, che ogni gesto quotidiano come bere un semplice succo di frutta è condiviso e vada a nutrire un altro esserino. Fa venire voglia di prendersi cura ancora di più di sé e di volersi bene. Lui è lì in qualche parte di te, esiste già, ha il suo viso e continua a crescere mentre tu ti muovi, mangi, cammini, lavori, dormi. E pensi a come sarebbe potuto essere.

5. Te lo dico da donna

Giovedì 25 settembre 2008

Due giorni fa Francesca, una manager del Regional Bureau, mi ha chiesto cosa penso di fare dopo che mi scade il contratto a gennaio, e gli ho spiegato un po’ la situazione. 

Mi ha chiesto se volevo restare col WFP e gli ho detto che in questo momento questa carriera internazionale non coincide con il giusto periodo della vita. Che se avessi iniziato qualche anno fa, non avrei forse avuto dubbi. Ma che se dovessi iniziare adesso, o lo si fa con una persona al proprio fianco, un ragazzo o un marito, oppure se si inizia da sola, poi passa l’età e si resta da sole. E a me non va di fare questa scelta. E lei ha detto che condivideva completamente questa posizione.

"Lascia che ti dica una cosa, da donna - mi ha detto - Che se a una certa età non hai trovato ancora la persona giusta, fallo un figlio, anche da sola. Può essere un atto egoistico, lo so, ma è un’esperienza che you can’t miss it". Me lo ha detto con la dolcezza della consapevolezza.

"Poi tanto…, da sola o no, la verità è che te lo cresceresti comunque da sola. Però devi avere il lavoro, quello sì". 
Le sue parole tutt'ora mi risuonano in testa.


[Si veda anche Vita da cooperante e Una vita a metà]

4. Vita da Bauab

Lunedì 22 settembre 2008

Attif è più giovane di me, molto più basso di me, ed è completamente analfabeta. E’ uno dei miei due bauab, i portieri.

I bauab sono una figura importantissima nella società cairota. Una vera e propria istituzione. Passano la giornata seduti davanti al palazzo di cui si prendono cura seguendo il viavai dei marciapiedi. Un’informazione fa il giro del quartiere in un secondo ribalzando da un bauab all’altro, da portone a portone. Sanno tutto di tutti. Sanno chi entra e chi esce, non gli sfugge nessuna faccia nuova, né a quale piano va e quanto si intrattiene (rendendo rischiosa qualsivoglia relazione non suggellata dalla legge, e quindi vietata...) [Si veda In flagrante reato]

Dormono nel sottoscala. I miei non hanno né rete né materasso e dormono su due coperte di lana sdrucite e sudici cuscini senza federa. La mattina alle 8, quando si scende per andare al lavoro, l’uscio e l’interno degli ascensori sono già stati lavati. Lungo i marciapiedi bauab e autisti lavano e lucidano le macchine dei padroni.

Aiutano a portare la spesa, pagano le bollette, fanno piccoli lavori di riparazione domestica, ovviamente compensati da bakhshish, mance.

Attif sa leggere i numeri (solo quelli arabi però), ma a fatica, e oggi mi ha detto “saba”, sette, mentre faceva il segno otto con le mani.

Potrebbe essere considerato irriverente, ma in una maniera volontaria, ironica e vivace. Mi ha sempre parlato in arabo, sapendo che non capisco nulla, aiutandosi con tutti i gesti possibili, per poi prendermi in giro quando vede le mie facce di sconforto, “Inti arabi mafish!”, mi urla, “Sei zero in arabo!”. Certe volte davvero riusciamo lo stesso a capirci (va beh, a parte lo spiacevole episodio dell’idraulico, ehm ehm...). E’ ambizioso e sveglio. Ha occhi vispi. Non ha mai mostrato soggezione, come invece fa Milad. E’ da quando sono arrivata che mi dice che vuole imparare l’inglese, o meglio, che me lo fa capire.

Oggi era salito da me per leggere il contatore della luce. Come al solito arriviamo a un punto in cui non ci si capisce più. Questa volte mi chiede quando parto. Dice che vuole imparare un po’ di inglese prima che me ne vada. Che io gli devo insegnare. Un quarto d’ora al giorno. Parlare. Piano piano, "shwaya shwaya". Che gli indico le cose e gli dico come si chiamano. Mi chiede se c’è problema. 

Io come sempre dico va bene, mafish muskela, non c’è problema, e non penso alla mia stanchezza quando torno a casa, a tutte le cose che devo fare, scrivere, a quanto poco tempo ho. A quanto possa sembrare strano agli altri, chissà che penseranno, che cosa faccio. Qui sento ogni giorno il peso della reputazione

Certo me ne importa fino a un certo punto, sono al di fuori di questo sistema e fra poco me ne andrò, ma è emblematico che la senta tanto, data l’attenzione dei bauab (ovviamente di tutto il circondario) per le abitudini di una donna non sposata che vive da sola.

***

I poveri; bisogna stare attenti con i poveri. A non essere troppo buoni. Perché sono furbi. Perché non sono tutti buoni come noi ce li dipingiamo, mentre ci gongoliamo nei nostri sensi di colpa occidentali

Parlarne così non vuol dire degradarli, ma al contrario dargli piena dignità, superando il buonismo e l'ideale alla "buon selvaggio". 

Vuol dire, per me, ora, anche proteggersi nella propria vita privata. Non si può dare loro troppa confidenza, perché sanno giocare, per sopravvivere. Noi saremo anche i ricchi, ma loro non hanno nulla da perdere. 

[Si veda anche Bauab]

3. Una vita a metà

Venerdì 12 settembre 2008
Ancora mi dico di restare qui, mi contraddico in continuazione e non prendo una decisione.

Poi penso che non ce la posso fare, che questa è una vita a metà; il fatto che abbia trovato un modo mio di affrontare questa realtà, non vuol dire che ci stia bene e che mi realizzi.

Fondamentalmente è limitante, ecco tutto. Manca la libertà, molto semplice. E questo è un cancro che ti si deposita negli atteggiamenti fino a che non te ne accorgi più, fa parte di te e pensi che sia la tua pelle, ma non è vero, non sei tu. E io non voglio essere la persona che sono qui.

Ieri mi ha chiamato A. Telefonata tranquilla e serena. Gli ho parlato della mia situazione. Lui mi diceva, dai, che è una vita emozionante, pensa a chi deve timbrare il cartellino tutti i giorni. Ma non è quello...(e magari! Quasi, ho voglia di annoiarmi a timbrare il cartellino...). Non si può capire. Lui non può capire.

Gli ho parlato di tutto il vuoto affettivo che una vita così provoca.

Dei genitori che gli devo fare io da genitore.

Della nonna che chiude ogni telefonata con le stesse parole: “spero di riuscire a rivederti”.

Degli amici che sono gli unici su cui puoi contare ma che sono lontani. Del dolore che è stato lasciare Bruxelles - e in quel momento la voce mi si è rotta per il pianto ma sono riuscita a nasconderlo.

Delle storie sentimentali, che non ti puoi mai lasciare andare perché sai che te ne devi andare, ed ergi ormai un muro a proteggerti, insormontabile, o invisibile per i più.

Delle persone che conosci, che a un certo punto non ti vuoi più dare, perché lo spazio dentro di te è già occupato, e perché comunque sei stanco di investire per poi dovertene andare.

Dei tuoi colleghi, i veterani della cooperazione, single, separati o ancora in coppia, ma comunque o scoppiati, o depressi, o disadattati, o cinici, o che è peggio, ancora bambini, illusi, eterni playboy ed egoisti, che si appoggiano a te, che sei giovane. Sono pochi a stare bene.

E’ una vita atomizzata

Questo lavoro è più di un lavoro; ti chiede la vita! Ti chiede di mettere da parte te stesso e la tua vita, per dedicartivi. Ma non è possible farlo se non si possa contare su un “contrappesoemozionale, emotivo. Si deve avere una qualche fonte d’amore, se no questa dimensione ti risucchia. Se non hai un sostegno alle spalle, affettivo, o per lo meno psicologico, non ce la puoi fare a metabolizzare l'umanità e le difficoltà che ti circondano. Sapere poi che le cose nella tua famiglia non vanno bene, è un’ulteriore aggravante, che ti rende debole.

Tuttavia, di nuovo, se pure si avesse un partner nella vita privata, vedo che molte volte le storie vanno a finire male dopo un po’ di anni di questa vita. Decisamente credo che la possano fare solo persone con un dispositivo emotivo, umanistico ed estetico diverso dal mio. Forse persone più pragmatiche, o più stabili.

Margot to Eleonora 12:05 AM
Cara Ele,
sono contenta di sentirti e immaginarti nella tua casetta immersa nel verde, sul mare. E' un'immagine da favola! Per favore, appena puoi mandaci delle foto!

Ovviamente, al di là dei sogni, so come siano le prime settimane...tieni duro! Sai, continuo a parlare con persone che magari mi invidiano per quello che faccio (e per carità, adoro quello che faccio!), ma sento proprio un gap e l'impossibilità di fargli capire che non è tutto rose e fiori quando ti trovi a vivere in queste circostanze! In due comunque deve essere diverso...

Io al Cairo come hai detto tu ho trovato il mio equilibrio, seppur fatto di incorporamento delle
limitazioni. Di fatto, si tratta qui di imparare a gestire la mancanza di libertà. Non c'è altra scelta. Poi, quando ti sembra di esserti finalmente abituato, ti svegli un giorno e ti dici che non sei tu quella, e che no, non puoi vivere così! Ma va bene, è un'esperienza di vita, e interculturale, intensissima.

Torno in Europa a dicembre. Ora non ho ancora cominciato a cercare lavoro. Ora mi devo buttare...mancano solo 3 mesi. Però non sono più preoccupata come una volta. Mi sento molto più self confident, e anche appagata per quanto riguarda le mie esperienze, e questo dà tranquillità.

Io ti auguro tutto il meglio e sono ansiosa di essere aggiornata. Un abbraccio!
Margot 

[Si veda anche Vita da cooperante e Molteplici vite]

2. Una scuola in Fayoum

Mercoledì 03 settembre 2008

Oggi sono andata al Fayoum a vistiare una scuola per accompagnare una giornalista. La classe era mista, in sesso ed età. In maggioranza erano ragazze, in linea con gli obiettivi del progetto.

Presa dall’entusiasmo e dalla tenerezza ho cominciatoa fotografare tanto, mentre la giornalista girava con la sua telecamera. I bambini guardavano fisso in camera ma non sorridevano. Cercavo di catturarne un sorriso, ma non ci riuscivo. 


Dopo un po’ sono riuscita a conquistare quattro di loro, che si sono messe a sperimentare la macchina fotografica. Mi faceva un po’ impressione lasciarla in quelle mani, ma quelle risa non avevano prezzo. Con altri invece, non c’è stato modo. 



C'era una bambina molto bella, dagli occhi azzurri e il velo fucsia, con lo sguardo perso. Per tutta la durata della nostra visita, non sono riuscita a cogliere alcun guizzo di presenza nei suoi occhi. Era come spenta. Un suo compagno, accanto, mi guardava con diffidenza.



                                                                       
La giornalista ha chiesto di poter seguire a casa una bambina dopo la lezione. Era per me la più bella. Vestita con una tunica beige lunga e un velo nero dai ricami dorati, timida; una di quelle che non sono riuscita a catturare e che fuggiva sempre l’obiettivo. 



Siamo passati attraverso stanze senza luce, dalle mura non intonacate e il paviemento di terra e paglia, forse sterco. Abbiamo salito gradini fatti di sassi sbilenchi, tra un sacco di cipolle, una bombola del gas, quattro pentole per terra e il giaciglio della capra. Siamo entrati in quella che era la sala da letto, o il salotto. I muri spogli, i tappeti a terra su cui stare scalzi, e solo una piccola televisione rossa accesa, in bianco e nero e con l’antenna, di quelle che ancora si trovavano all’inizio degli anni ‘80. Mi ricorda quella arancione che avevamo nella casa della nonna. 




La bimba a casa si è tolta la tunica – che ho capito essere il vestito buono per andare a scuola – e il velo. La giornalista era molto dolce. Ha acceso la telecamera, l’ha ripresa mentre faceva i compiti, e poi le ha fatto le domande. La bimba rispondeva con un filo di voce e gli occhi sgranati. Era timida, era imbarazzata, non sapeva che succedeva. La mamma la incalzava con dolcezza, e la aiutava a finire le frasi. Io ho fatto qualche foto. 


                         


Dopo, mamma e figlia ci hanno portato nei campi e la bimba ci ha fatto vedere come, dopo i compiti, aiutava la madre a tagliare l’erba per gli animali.  


Il giorno dopo sono stata male per la mia avidità di immagini. Mi chiedevo perché questi bambini non riuscissero a scioglierci, e sapevo già la risposta, come poi mi ha confermato Khaled. Sono bimbi abituati a sentire le maestre descrivere la loro situazione miserevole e di bisogno, e sono stanchi di essere fotografati per quella che hanno capito essere la loro povertà

1. Ramadam

Tutti riposano in moschea nel pomeriggio
Lunedì 01 settembre 2008

Oggi inizia il Ramadam.
Durante il mese del Ramadam i fedeli devono fare una preghiera anche all’alba, verso le 3.30. 
Per svegliarli, uno strillone passa per le strade - il mesaharaty - e al ritmo di un tamburello dal suono sordo e cupo chiama "Dr. Mohammed, Khaled, Hanaa, Ahmed, Dr. Mohammed…". Chiama a ripetizione nomi a caso, i più comuni.

In quel momento della notte il mio sonno è talmente profondo e i sensi talmente obnubilati e ottusi dal caldo, che ne prendo coscienza solo dopo un po’. Il ritmo e la sua voce più volte si sono fusi per qualche istante coi miei sogni, in una maniera violenta e tormentata, come in un'atmosfera medievale

Aspettando l'Iftar - la cena/festa dopo il 
calar del sole - sotto al cavalcavia di Zamalek
La moschea è un rifugio di fresco, pace 
e pulizia nel caos cairota...