4. Vita da Bauab

Lunedì 22 settembre 2008

Attif è più giovane di me, molto più basso di me, ed è completamente analfabeta. E’ uno dei miei due bauab, i portieri.

I bauab sono una figura importantissima nella società cairota. Una vera e propria istituzione. Passano la giornata seduti davanti al palazzo di cui si prendono cura seguendo il viavai dei marciapiedi. Un’informazione fa il giro del quartiere in un secondo ribalzando da un bauab all’altro, da portone a portone. Sanno tutto di tutti. Sanno chi entra e chi esce, non gli sfugge nessuna faccia nuova, né a quale piano va e quanto si intrattiene (rendendo rischiosa qualsivoglia relazione non suggellata dalla legge, e quindi vietata...) [Si veda In flagrante reato]

Dormono nel sottoscala. I miei non hanno né rete né materasso e dormono su due coperte di lana sdrucite e sudici cuscini senza federa. La mattina alle 8, quando si scende per andare al lavoro, l’uscio e l’interno degli ascensori sono già stati lavati. Lungo i marciapiedi bauab e autisti lavano e lucidano le macchine dei padroni.

Aiutano a portare la spesa, pagano le bollette, fanno piccoli lavori di riparazione domestica, ovviamente compensati da bakhshish, mance.

Attif sa leggere i numeri (solo quelli arabi però), ma a fatica, e oggi mi ha detto “saba”, sette, mentre faceva il segno otto con le mani.

Potrebbe essere considerato irriverente, ma in una maniera volontaria, ironica e vivace. Mi ha sempre parlato in arabo, sapendo che non capisco nulla, aiutandosi con tutti i gesti possibili, per poi prendermi in giro quando vede le mie facce di sconforto, “Inti arabi mafish!”, mi urla, “Sei zero in arabo!”. Certe volte davvero riusciamo lo stesso a capirci (va beh, a parte lo spiacevole episodio dell’idraulico, ehm ehm...). E’ ambizioso e sveglio. Ha occhi vispi. Non ha mai mostrato soggezione, come invece fa Milad. E’ da quando sono arrivata che mi dice che vuole imparare l’inglese, o meglio, che me lo fa capire.

Oggi era salito da me per leggere il contatore della luce. Come al solito arriviamo a un punto in cui non ci si capisce più. Questa volte mi chiede quando parto. Dice che vuole imparare un po’ di inglese prima che me ne vada. Che io gli devo insegnare. Un quarto d’ora al giorno. Parlare. Piano piano, "shwaya shwaya". Che gli indico le cose e gli dico come si chiamano. Mi chiede se c’è problema. 

Io come sempre dico va bene, mafish muskela, non c’è problema, e non penso alla mia stanchezza quando torno a casa, a tutte le cose che devo fare, scrivere, a quanto poco tempo ho. A quanto possa sembrare strano agli altri, chissà che penseranno, che cosa faccio. Qui sento ogni giorno il peso della reputazione

Certo me ne importa fino a un certo punto, sono al di fuori di questo sistema e fra poco me ne andrò, ma è emblematico che la senta tanto, data l’attenzione dei bauab (ovviamente di tutto il circondario) per le abitudini di una donna non sposata che vive da sola.

***

I poveri; bisogna stare attenti con i poveri. A non essere troppo buoni. Perché sono furbi. Perché non sono tutti buoni come noi ce li dipingiamo, mentre ci gongoliamo nei nostri sensi di colpa occidentali

Parlarne così non vuol dire degradarli, ma al contrario dargli piena dignità, superando il buonismo e l'ideale alla "buon selvaggio". 

Vuol dire, per me, ora, anche proteggersi nella propria vita privata. Non si può dare loro troppa confidenza, perché sanno giocare, per sopravvivere. Noi saremo anche i ricchi, ma loro non hanno nulla da perdere. 

[Si veda anche Bauab]

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