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9. Una seduzione privata

Sabato 28 agosto 2008

L’altro giorno in metro sedevano accanto a me due giovani ragazze, una delle quali completamente velata, in niquab. Entrambe guardavano gli appunti dell’università sul quaderno della ragazza coperta. Come facevamo anche noi a scuola, questa aveva disegnato a penna al lato della pagina dei busti femminili; a differenza di noi, in questo caso si trattava di busti velati: due schizzi di donna in niquab il cui fulcro erano due occhi marcatissimi, intensi, ammalianti, dalle ciglia lunghe e i contorni di kajal.

Credo le donne col niquab si dividano in due gruppi.

Da un lato le donne (spesso di mezza età) dagli abiti sdruciti e trasandati per cui il nascondersi è un atto di silenzio, una rinuncia alla personalità in cambio della possibilità di uscire dalle mura domestiche. Alcune di queste donne sembrano esprimere sulle loro figlie le loro vanità represse. Non è raro vedere donne velate, anche completamente (intendo, con anche gli occhi coperti), con bambine estremamente curate e femminili, persino con mini-gonne o la pancia scoperta. L’altro giorno ho visto una donna, integralmente coperta, con una bimba di massimo un anno e mezzo. A parte gli orecchini, che tutte le bambine appena nate già hanno, aveva una collana e anelli in entrambe le mani, tutto dorato.

Dall’altro lato – e si nota soprattutto nelle ragazze giovani – il nascondersi diventa un gioco alla seduzione, una seduzione di cui forse hanno paura, perché demonizzata. Sicuramente è un modo per gestire una sensualità che la loro cultura non gli dà modo, spazio e codici per esprimere. E quindi reinterpretano la seduzione tramite il codice della sua negazione: il coprirsi. Colgo in quei disegni e nell’intensità ammaliante di quegli sguardi un atto affermativo forte riguardo a questa scelta di coprirsi (per tanti lati scelta indotta, ok...ma questo è un altro discorso). È un gioco ad un’affermazione per negazione.

Alcuna di queste ragazze hanno i tradizionali abiti neri, abayatagliati finemente sui fianchi, che lasciano intuire – certo non vedere – le forme del corpo. Gli abiti sono decorati da ricami argentei o paiettes che seguono le linee principali del corpo; se le mani non sono coperte da guanti sottili, spesso il dito medio è decorato da un cordoncino attaccato alle maniche del vestito, che ne assicura la lunghezza. Gli occhi e le sopracciglia sono spesso sorprendentemente curati e truccati.

Che cosa c’è sotto?

Mi hanno ripetuto spesso che in Arabia Saudita, nonostante non sia imposto dalla legge, la maggior parte delle donne indossa il niquab. Mi hanno anche raccontato di come le si veda arrivare dall’estetista e scoprire da sotto quei veli, corpi e visi curati nei minimi dettagli. Anche gli abiti che portano sotto sono femminili e sexy. Qualche volta assisto a rituali simili in palestra.

Mi rendo conto di come, ancora più forte delle implicazioni e ragioni sociali del velo, sia la sua dimensione intima. Io comincio a capire e sentire questo fascino nel rapporto con l’uomo, col proprio uomo. Un gioco di sensualità e possessività carnale molto forti emanano da questo "implicito" riservarsi solo per il proprio uomo (implicito perché la funzione primaria e condivisa del velo è invece un'altra).

Noi occidentali siamo abituate a vedere solo il lato sottrattivo del velo: sottrazione della libertà, del corpo, della bellezza dei capelli; ma in realtà non percepiamo e non sappiamo nulla del riflesso interiore e intimo di questo artificio, che è come un’espansione, una propagazione interiore della femminilità, profonda e ancestrale (una sensazione che riesco a ricostruire solo pensando al contatto con la mia nonna di giù).

L’uomo arabo, da parte sua, sia sente sia trasmette questa “cosa”, e devo ammettere che mi piace e che mi fa sentire in qualche modo valorizzata. Oddio, non posso davvero immaginarmi dire questo ma è così - pur consapevole di tutti i meccanismi sociologici ecc. ecc...sento questa cosa! Con lui sento così. Anche se non metto il velo - perché non posso, non voglio e nessuno se lo aspetta, sarei ridicola - ho capito che fa parte anche di un gioco a due.

E comunque. Mai nessuno prima di lui è stato capace di farmi sentire così serenamente fragile. C'è una forza, una sicurezza e una naturalezza nel suo prendersi cura di me che gli altri non hanno, non così. Come se la maggior parte dei ragazzi occidentali abbia perso la capacità e il piacere di proteggere una donna.

[Si vedano anche i post Il velo: decenza o intrigo?, Matrimonio pre-romantico e oltre, Donne e bambini e Incipit]

6. Una bambina in metro

Domenica 17 agosto 2008 

Ero davanti alla porta della metro, al centro, aspettando di uscire.

Alla mia destra una bimba di massimo sei anni. Dalla parte opposta la madre, dall’età indefinibile, certo giovane, ma sciupata e pesante. Era coperta alla maniera della gente più povera, col velo lungo e intero, ma aperto in viso. Portava una busta grande, piena di un misto indefinibile di sacchetti e pezzi di stoffa.

Come sempre all’avvicinarsi della fermata Al Taharir, le donne si accalcano verso la porta e iniziano a spingere, preparandosi a quella che è una vera e propria “espulsione”, dove a volte i piedi nemmeno riescono a toccare terra. Quando le porte si aprono, le donne in attesa di salire vengono avanti senza aspettare che le altre scendano e io ogni volta ringrazio di riuscire ad arrivare al suolo con entrambe le ciabatte ai piedi, e soprattutto di non cadere con un piede nel largo varco che separa il vagone dalla banchina.

La donna mi guardava. Io distoglievo lo sguardo, imbarazzata dal mio benessere. Il treno già rallenta e la bimba vacilla vistosamente, mentre la donna le dice qualcosa che ovviamente non capisco.

Allungo un braccio istintivamente verso la sua spalla per sostenerla. Non la afferro, solo pongo una mano come contrappeso nel caso avesse perso l’equilibrio. Al mio contatto, si gira e mi guarda. La mia mano è ancora lì, non glie la sto porgendo, ma lei, come se fosse la cosa più naturale, la afferra, e poi torna a voltare, tranquilla, lo sguardo verso la porta. La madre – occupata con due mani a sollevare il borsone, mi ricambia con un sorriso riconoscente ma altrettanto naturale - forse compiaciuto di vedere una ricca occidentale aiutare la sua bambina.

Le porte si aprono, la madre riesce a sgattaiolare subito fuori trovandosi a un’estremità della porta. Io sono al centro, e ho tra le mani questa stretta confidente. La tengo stretta e poi quasi sollevandola da sotto le braccia la aiuto a oltrepassare quel varco, non senza esitazione data la spinta contraria della massa entrante.

Dopo il salto la lascio. La madre mi stava sorridendo tranquilla. Ho ricambiato il sorriso con affetto, salutato, e sono andata via. Non so se glie l’avesse detto la madre di prendermi la mano sperando facessi loro la carità per il Ramadan; non è detto… di fatto nella carrozza delle donne è naturale suddividersi e farsi carico di queste mansioni coi bambini. Non potevo saperlo, ma mentre mi allontanavo con ancora il calore di quella stretta, nel vuoto che sto vivendo, ho sentito come se l’avessero fatta a me la carità. 

[Si veda anche il post Donne e bambini]

10. Donne e bambini

Mercoledì 4 giugno 2008

Credo che una delle più belle esperienze che quest’ anno mi sta regalando sia la metro e suoi i vagoni femminili. Uno spaccato della vita private delle donne tra le donne, al di fuori del loro ruolo di mogli e dell’immagine di fronte al mondo maschile.

La metro è piena di bambini piccolissimi, tutti portati in braccio avvolti in un panno - dato che i marsupi e le carrozzine paiono non esistere.

Ogni tanto una donna si alza il velo scoprendo un bambino attaccato al seno. Ieri ce n’era uno che avrà avuto sui due anni. Se ne è stato pacifico sotto il velo a poppare facendo spuntare solo una mano, con cui cercava e toccava la mamma, o giocava con le donne lì intorno.

Scopro una dolcezza ancestrale e sconosciuta di queste madri coi loro bambini. Queste donne giocano e se li stringono come non ho mai visto fare in Europa, ora. Forse le nostre nonne sì, facevano così, e mi viene in mente la voce cristallina di mia nonna mentre cantava le filastrocche e faceva saltellare qualche nipote sulle ginocchia. Ma è come se per la prima volta vedessi una madre, oppure un modo di essere madre che non avevo mai conosciuto prima. 

Donne che sono una cosa sola coi loro bambini, che giocano con loro e ridono come bambini, che sembrano bambine anche loro, e sorelle delle loro figlie più grandi.

Se nella metro non c’è posto e una donna deve restare in piedi, oppure ha troppi figli da badare, le donne si passano, si scambiano e si tengono i bambini. Con molta probabilità, il bambino comincia a passare di ginocchia in ginocchia, tra le mani di lunghe file di donne in niquab. Mi chiedo cosa pensino i bambini di queste maschere nere, tutte uguali e irriconoscibili.

Donne e bambini sembrano condividere tutto, ritmi, spazi e, per quanto riguarda i bambini più grandi, anche responsabilità. I ragazzi più grandi, fino ai 10-12 anni, seguono la madre nel vagone delle donne, badano i fratelli più piccoli e portano le borse e pesi. Oggi ho visto un ragazzino sui dieci anni salire con la madre e portare un sacco grande in testa come fanno le donne - anni luce dai bambini arroganti e capricciosi con le scarpe Nike che vedo in Italia.

Mi rendo conto di quello che è stata la vita delle donne per millenni, prima che le contraddizioni di questa nostra società occidentale ci portassero a rincorrere modelli di felicità inconsistenti, che in realtà, quanto più ti trascinano lontano dalla naturalezza della vita, tanto più ti rendono impossibile essere felice. 

In questo contesto, d’un tratto mi si illumina un testo letto all’università per il modulo di storia sociale, nell’esame di storia moderna. Un tale storico del ‘500 di cui non ricordo il nome si esprimeva sul ruolo della donna e dell’uomo e sulle relative intelligenze. Senza entrare nel merito delle idee discriminatorie espresse, mi colpì che uno degli argomenti apportati per dimostrare l’inferiorità naturale della donna era proprio l’assimilazione di questa coi bambini - intesi questi come esseri umani in stato pre-logico: dalle fattezze fisiche (senza peli, senza forza), alle dinamiche emotive, ai ritmi di vita, tra donne e bambini non vi era soluzione di continuità, vivendo in piena simbiosi e identificazione reciproca.

Di vero c’è solo che in società tradizionali (dove la ripartizione dei ruoli è fissa e rigida nonché a scapito dell’indipendenza femminile) e in più basate sul concetto di “segregazione sessuale” (ovvero dove un rapporto diretto tra uomo e donna può esistere solo all’interno di ruoli familiari codificati – fratello, padre, marito, zio… - si leggano a questo proposito i lavori della sociologa Fatema Mernissi), le donne non hanno altro che i loro bambini come vero contatto emotivo e d'amore. E conoscendo come si basano qui i rapporti di coppia nelle classi medio-basse, so che di fatto è così. Tuttavia questa naturalezza affettiva che da noi non ho mai visto, e mi strega.

Mi chiedo anche, di fatto, cosa abbiamo guadagnato io e le mie amiche; a quasi trent'anni ancora a barcamenarci tra una carriera che non decolla a causa del precariatola consapevolezza che comunque potremmo perderla in un attimo se incinte, e bloccate tra coetanei a cui la prospettiva di avere figli non sfiora nemmeno l'anticamera del cervello. 

Dall'altra parte ci sono poi le donne che hanno represso l'istinto di maternità - perso non si sa in quale fase della nostra educazione - marginalizzato come se fosse il retaggio di una società antiquata. Queste donne ora mi fanno paura, carrieriste e denaturalizzate; perché vi è una bella differenza tra l'entrare in contatto con la natura della propria femminilità, e il pensare che il desiderio di un figlio sia solo il bisogno "indotto" di un mondo antiquato

O ancora, è forse sana una società che risponde alla frustrazione femminile con l'attenuante che "tanto ora i figli si cominciano a fare a 40 anni" - magari con compagni di ormai 50 anni che nel frattempo forse sono maturati - là dove di fatto non lascia altra scelta? Io non lo vedo tutto questo tempo, e  non siamo giovani per sempre come ci vogliono fare credere. E poi non è solo perché una cosa è possibile che è desiderabile o giusta. Tutto ciò è perversoNoi occidentali in questo siamo diventati perversi.

***

C’è una donna, giovane, che vedo spesso la mattina in metro. Non è velata e spesso porta maniche corte. Dall’abbigliamento e la pettinatura mi sembra essere cristiana copta. Non ci salutiamo, ma ci facciamo cenno e sorridiamo.

Ero in piedi davanti a lei e le davo la schiena. Lei da dietro mi ha messo a posto la maglia, che forse era andata un po’ in su.

Lo stesso mi è capitato nel bagno pubblico di un centro commerciale. Ero appena uscita dal bagno e davanti allo specchio mi lavavo le mani. Non mi ero tirata giù bene la maglia, e la donna delle pulizie mi si è avvicinata e me l’ha sistemata.

Queste donne, quelle di classe più bassa, accudiscono, curano, esprimono la premura e solidarietà in ogni gesto verso le altre donne, verso i bambini degli altri e verso il mondo intero.

Martedì 17 giugno 2008

Oggi ho visto una donna, tutta coperta col niquab, coi suoi tre bambini maschi.

I primi due avranno avuto rispettivamente cinque e sette anni, mentre il terzo era piccolo, di un anno e mezzo. Lei e i due bambini più grande si passavano il più piccolo in continuazione: ho visto il fratello di 5-6 anni tenere in braccio questo pupazzetto e poi passarlo al fratello più grande che lo sballottava e gli dava i baci.



























La madre era tranquilla e li lasciava fare. Io avevo paura che gli cadesse e mi stupivo sia della tranquillità della madre, sia dell’affetto e della responsabilità degli altri due fratelli, entrambi maschi tra l’altro. Una scena così io non l’ho mai vista in Europa, dove i bambini sono spesso egoisti, dispettosi e viziati. Io vedo un amore e un affetto tra queste persone che non ho mai visto; così semplice e autentico che mi commuove.

In generale, mi sono più volte sorpresa a guardare le dimostrazioni di affetto tra bambini e fratelli, o le premure e i giochi degli uomini (a partire dagli adolescenti) verso bambini e bambine piccoli.

7. I bambini hanno fame

Venerdì 2 maggio 2008

Oggi per la strada verso l’ufficio, una bambina si stacca da un gruppetto di quattro o cinque bambine e mi viene incontro porgendomi la mano per stringermela. Con due occhi aperti, sorridenti, incantati, felici mi salutava - “Hello! hello!” – tutta contenta che mi aveva stretto la mano. Io poi forse quel giorno ero particolarmente “esotica” con gli occhiali da sole e i capelli, biondi, per una volta sciolti.

Sabato 3 maggio 2008

Bimba che si avvicina alla 
macchina ci chiede i wafer
Stavo camminando per una stradina con Anna. Una bambina ci è venuta vicino continuando a dire qualcosa che non capivo. Ho pensato volesse soldi e cercando di non intenerirmi ho rifuggito l’istinto di darle qualcosa, sapendo quanto fosse inutile.

Stavo bevendo un succo di frutta in bottiglietta e d’improvviso mi rendo conto come fosse quello il centro della sua attenzione: la bimba mima il gesto di bere. Appena me ne sono resa conto le ho dato la mia bottiglietta, già mezza vuota, e lei si è allontana bevendola.

Mi sono accorta poi che avevamo con noi un’altra bottiglietta intera e che… ma lei era già lontana. 


Un paio di giorni fa a Sakkara mentre ero ferma in macchina, una bambina si avvicina perché mi vede mangiare i wafer. La fine dei wafer è mostrata nella foto qui sopra.

Lunedì 19 maggio 2008

Questi sono tempi difficili in Egitto, le cose vanno proprio male. La food crisis è al suo culmine, i prezzi sono schizzati alle stelle e le persone non riescono più a mangiare. Gli Egiziani sempre più poveri…a volte non ce la faccio. 

Sulla metro ci vanno notoriamente le persone di classe medio-bassa. Nonostante ciò, si aiutano tra loro. Quando passa un venditore di fazzoletti, gli porgono sempre un pound, senza nemmeno sempre prendere i fazzoletti. E qui i mendicanti sono veri invalidi o poveri. In particolare in questi giorni vedo sempre un uomo cieco.

La reazione è stata invece diversa quando una volta è salita una bambinetta sui 6 anni, completamente velata, vestita col tradizionale abito lungo, blu. Anche lei vendeva i fazzoletti, ma nessuno glie li ha comprati. Mi domando se per un qualche motivo etico riguardante il lavoro infantile.

Sabato 30 maggio 2008

Ho dato il succo di frutta al mio bimbo per strada, quello che lavora sotto casa mia. Non credeva ai suoi occhi,e non capiva come e se doveva accettarlo. E poi da lontano mi sono fermata a guardare come ha smesso di lavorare e si è andato a sedere in un angolo all’ombra per berselo. Piccolo…Il giorno dopo mi è rivenuto vicino, si ricordava di me. Solo che io non avevo nulla ed ero al telefono in mezzo al traffico, per cui non ho potuto badargli…

Domenica 31 maggio 2008


Strada Shagarett Al Dorr, sotto casa mia, h.8.00. Un bambino raccoglie da terra, vicino ad alcune piante e arbusti piantati per strada, un vaso di terracotta poggiato lì accanto. E ci beve dentro.

Sabato 14 giugno 2008



Questa mattina per la strada per andare da Liliana, vicino a strada 26 di luglio, vedo tutti i bimbi a vendere i fusticelli di erbe.

Cerco tra gli altri il bimbo che conosco, ed è lì. Sono in tutto tre bimbi piccoli piccoli, di non più di sei anni. L’altro giorno due si prendevano a botte, come due adulti. Poi ce n’è uno più grande, pure un po’ ciccio, che ne può avere al massimo otto e che già vende con l’insistenza di un adulto. Mentre i tre piccolini sono ancora timidi. E infine una ragazzina, forse sui dieci anni, velata.

Uno dei piccoli si avvicina, quello moro. Io non so fare altro che accarezzargli la testa. Gli altri due vedendo il loro amico che attirava le attenzioni, si sono precipitati, tutti gridando “madame, madame!”, ognuno che voleva vincere sugli altri. Poi arriva il bimbo grande, di gran lunga più arrogante. La ragazzina si avvicina per ultima timidamente, e perché il gruppetto ormai si era formato. Erano tutti intorno a me che sgomitavano, e si urlavano l’un l’altro di essere arrivati prima.

Io sapevo di avere molti spicci, per tutti. Mi ero ripromessa di non dargli soldi. Ma questa volta non ce l’ho fatta e ho messo mano al portafoglio. Loro continuavano a lottare. Ho fatto il gesto con la mano perché aspettassero. Si fermavano mezzo secondo e ricominciavano, il bimbo moro in prima fila, perché era stato il primo ad avvicinarmi. Il mio bimbo restava più in disparte. Una, due volte ancora ho dovuto fermarmi e fare con la mano il gesto che fanno loro per dire “aspetta” – equivalente al nostro “ma che vuoi?!”.

Ho tirato fuori cinque pound contati, e per un attimo ho pensato che non sarei riuscita a distribuirli, tanto si affannavano e dimenavano; fino a che non hanno capito che ce n’era per tutti e si sono calmati. Fremevano ma hanno aspettato il loro turno. Il bimbo moro moderava, e sottolineava ogni consegna con un “Ok”. Infine è stato lui quello che è restato per darmi il mio mazzetto di menta. - Malish, malish (va bene così) - Thank you!

Ora mi sono fregata, e non mi lasceranno più vivere. Sono arrivata a casa di Liliana col cuore sciolto e anche sentendomi una stupida per avergli dato soldi. 

2. L'arrivo


Domenica 17 febbraio 2008

Sono atterrata ieri.

Questa sensazione la conosco, ma quando mi prese a Santiago del Cile non era tanto forte.

E’ un senso di smarrimento, che quando ti guardi intorno ti chiedi che diavolo ci fai lì. In questo paese così vicino e così lontano. Il Latinoamerica in confronto è dietro l’angolo. Provi a proiettarti fra 10 mesi e pensi che non ce la farai mai a sopportare un anno in queste condizioni. Provi a immaginarti quanta vita scorre là dove hai lasciato le persone a cui vuoi bene, e pensi che non riuscirai mai più a colmare la frattura, anche se continui a ripeterti che l’esperienza ti ha dimostrato che non è vero.

La realtà è che sei tu che hai paura di cambiare, di perdere il controllo di quello che sei ora, coi tuoi gusti, le tue esigenze, i tuoi amori, le tue priorità. Sai che il cambiamento è ineluttabile, e così intrinseco che non hai modo di controllarlo. Hai paura di ritrovarti fra un anno senza riconoscerti, senza più sapere che posto andare a rivestire nella società che a malincuore hai appena lasciato, e nella quale avevi abbozzato finalmente un percorso in cui ti riconoscevi e identificavi. E ora che cos’è questo lavoro che mi ritrovo? E’ ora in grado di sopperire a un mio bisogno esistenziale? No...Dove ero io ora? In un mondo fatato, è vero, però era diventato per una volta il mio mondo.


Non ho internet a casa né skype in ufficio. Non ho un posto mio ancora, sono lontana dal lavoro. Avere punti di riferimento in arabo è impossibile, e anche ricordarsi le parole e i nomi delle vie. Conosco già questo senso di straniamento, ma è pur sempre sgradevole. Almeno con le lingue europee riesci ad orientarti, qui invece....è arabo.

Anche a Santiago i primi due giorni ho reagito così. Mi ricordo che avevo il magone, che mi mancava tutto, e qualsiasi sciocchezza mi infastidiva: il fatto di non poter buttare la carta igienica nel water, il sapore di cloro dell’acqua, il freddo mentre facevo la doccia, le strade inquinate. Ma dopo una settimana mi ero fatta conquistare dai colori, e dopo un mese non volevo più andarmene.

Ora so che tutto questo malessere dipende solo dalla casa, che è per antonomasia sinonimo di abitudine. Datemi delle abitudini. Non ce la faccio più a ribaltare sempre tutto, a rifare sempre gli stessi processi. Casa, trasporti, sim card, banca, collegamento internet, esplorazione negozi, registrazione al consolato...La mia testa è un intruglio di codici e numeri pin.


Oggi è stato il primo giorno di lavoro, un lavoro bellissimo, quello per cui ho investito tutto, e rinunciato a tanto…Ma non riesco ad esserne entusiasta. Vorrei quello da cui sono sempre scappata: avere la tranquillità di una vita regolare, in una bella città, con il sole, e una dimensione pedonale. Un lavoretto decente ma non per forza super figo, che mi dia i soldi giusti per poter vivere decentemente e metter qualcosa da parte. Arrivare a casa a un ora decente e chiacchierare con un amico davanti a un bicchiere, rilassarmi, curare il mio corpo in palestra, vedere un film con qualcuno, leggere e leggere.


O forse ho semplicemente perso, o meglio, appagato, quella vena antropologica che mi ha sempre spinto ad assimilarmi ai luoghi per poterne cogliere l’anima. Ora preferisco molto di più un’osservazione distaccata, ma pur sempre acuta. Non ho più quella voglia di andare dentro l’altro e il diverso per forza, di capire la sua forma mentis, il perché fa certe cose. Mi piace prendere atto delle sue abitudini, quello sì.


Credo che il mio punto di massima espansione, come lo chiamava P., sia stato toccato. Ora è il tempo del raccoglimento. Credo che dovrò cercare di sistemarmi al più presto, tranquillizzarmi, farmi una buona connessione Internet, concentrarmi sul lavoro, per fare un buon lavoro, e poi cominciare a mandare cv a Bruxelles.
Non ho tanta voglia di uscire al momento. Bruxelles mi ha estenuato nell’ultimo anno. Forse mi verrà tra un paio di mesi...Credo non ci sia nulla di male ora a prendersi un po’ di tempo per ricaricarsi. La città me la godrò più avanti.


***


Non è scontato niente. Non è scontata la salute, non è scontata l’aria che respiri, la sicurezza delle case in cui vivi, delle strade, degli ascensori o delle macchine che guidi, o i controlli sul cibo.

Ho ingurgitato quintali di piombo. Il Cairo è perennemente avvolta dalla nebbia…solo che è smog. Questa città non contempla l’esistenza della parola “pedone” ed è continuamente congestionata dal traffico. Ho marciato in lungo e in largo, cercando di passare da un ponte all’altro del Nilo. A un certo punto mi sono ritrovata su un raccordo – per nulla pedonale – camminando in salita in un marciapiede di 10 cm, interrotto regolarmente da pali della luce, ai quali dovevo attaccarmi ruotando per poter continuare a camminare sulla stretta striscia senza cadere sulla strada dove le macchine sfrecciavano.

Le strade in generale non sono attraversabili, e ovviamente mancano le strisce pedonali. Ci sono militari ad ogni angolo, ma ancora non ho capito a fare cosa, se non per morire di cancro fra 5 anni. L’aria è irrespirabile, e ciononostante le persone passeggiano sui ponti e si affacciano alle balaustre per guardare il Nilo, che sì, è affascinante.

Ieri, primo giorno, mi hanno mandato l'autista; domani dovro' andare al lavoro da sola. Vedremo come...!


Lunedì 18 febbraio 2008


Oggi A. mi ha mandato una mail. Discreta e asciutta. Mi rendo conto di come, se avessi qualcuno accanto, sarebbe comunque questo tutto quello che vorrei. Qualcuno che sappia entrare poco a poco in me, che non rischi di interrompere gli andirivieni dei miei umori con il suono imposto della voce; ma che si insinui semplicemente nei miei pensieri, tramite poche parole, radicandosi così in maniera più uniforme dentro di me. Quanto invece mi sentivo graffiata dalla videocamera in skype...Ogni giorno, stessa ora, e la schiavitù della voce e della telecamera.

Mi rendo conto di quanto sono sfuggevole. E di quanto il mio mondo interiore sia intricato, e non riesca a sintonizzarsi sulle frequenze esteriori. In questi giorni Sara, che mi ospita, deve starsi chiedendo che cosa mi spinga a chiudermi in camera mia alle 20.30, col mio computer, a scrivere – come le dico.


E’ la mia esigenza di districare i fili, di dipanare la matassa quotidianamente, per poter controllare bene i fili del burattino la mattina dopo. Non riesco a gestire più di tanti input. E ho capito che ho un bisogno quotidiano di farne tabula rasa, ovvero, di digerirli con me stessa.


Questa notte sono riuscita a riposare - inaspettatamente, dato lo stato d’animo di ieri sera – e mi sono svegliata molto bene. La soluzione taxi + metro per andare al lavoro ha funzionato, e mi sono tranquillizzata.


E già entro in quello stato in cui ci si avvicina alle persone, come a Lara per esempio, o Liliana, una signora italiana che ho conosciuto oggi. In fondo, li conosco già gli stadi di adattamento.


Ciao A.,

il viaggio è andato bene, con tanto di solita gente che non è disposta a capire quando qualcuno preferisce ascoltare l’ipod piuttosto che parlare tutto il tempo...


La città è strana...Non riesco a dire che è bella perché i due quartieri che ho visto esteticamente non lo sono, però l’atmosfera mi piace. Credo che abbia tanto da offrire, ora cercherò di scoprirlo. Tutti mi hanno detto che è una città molto sicura, anche per girare da soli. Gli egiziani sembrano proprio tranquilli, a parte che forse osservano un po’.


Ieri per tornare a casa ho preso la metro. Mi sono infilata in un vagone, a caso, e mi sono accorta che erano tutte donne. Insomma, uno dei vagoni centrali è riservato a sole donne. Per fortuna che mi sono infilato in quello giusto! Quando sono uscita dal mio vagone ho visto gli altri che letteralmente straripavano ed erano tutti uomini, aiuto! Forse ci vanno solo le donne di una certa età.


Poi ho preso il mio primo taxi scassato, dopo aver finalmente desistito (dopo quintali di piombo inalato) dal fare l’ultimo tratto di strada a piedi, cercando disperatametne di capire come evitare i raccordi, impossibili da attraversare, che passano attorno al Nilo. Sta mattina mi sono svegliata con quella sensazione di quando hai fumato più del tuo numero solito di sigarette. Ho inoltre capito che il rischio più grande che correrò è quello di essere investita da una macchina. Ho anche scoperto che la mia patente qui non è valida, e sono molto disappointed, ma forse è un bene che non possa gettarmi in questo traffico.


Non ho ancora visto il centro, ci andrò questo weekend. Il Nilo è affascinante, e ci sono vari locali e giardini lungo le sponde. Ma per il resto anche il quartiere che dicono essere un po’ più residenziale e caro (dove lavoro io), in certe parti a me pare comunque popolare...


L’inglese qua non è che lo mastichino così tanto bene per la strada. Era tanto che non mi capitava di sentirmi così completamente incapace di comunicare. Poi per quanto riguarda la trascrizione in alfabeto latino...ognuno ha la sua versione e non si capisce mai se si sta parlando dello stesso posto. Appena trovo una casa e mi sistemo, corso di arabo. Va beh, comunque in fondo è un po’ come stare a Napoli ;)


In ufficio non posso installare skype e Sara non ha internet a casa per cui in questi giorni sono un po’ isolata. In compenso ho un nuovo numero egizio: 02 016 9010772


A presto,
Margot