7. Vita da cooperante

2 aprile 2008
Sono stanchissima. Basta, mi sono stancata di questo girare, questo cambiare lavoro, questo ricoprire ruoli e posizioni di passaggio, perché poi anche gli altri ti sentono come di passaggio e non ti considerano una risorsa.

Non riesco ad appassionarmi a questo lavoro. Cerco di concentrarmi, mi sforzo di recuperare lo stato mentale di quando studiavo, la stessa profondità analitica e la motivazione intellettuale, ma non ci riesco. E questo è emblematico, perché invece faccio un lavoro bellissimo.

È una mancanza di motivazione che probabilmente viene dal fatto che questa volta, per la prima volta, la sento come un’esperienza fine a sé stessa. Dentro di me è come se avessi maturato parallelamente la convinzione e che la vita del cooperante internazionale non fa per me, e che è in Europa che voglio costruire la mia vita.

È un’evidenza che ho raggiunto solo recentemente, per tutta una serie di motivi. E questo mi rende molto difficile impegnarmi come facevo invece nelle esperienze precedenti, quando percepivo ogni nuova avventura come un possibile trampolino di lancio o una porta verso un affascinante ignoto futuro.

Non posso fare la cooperante perché questa vita può essere intrapresa da una donna della mia età solo se ha qualcuno accanto, o profondamente vicino anche se a distanza. Se no semplicemente si tratta di una vita che sciupa, sdrena, strema e che ti butta via.

Solo chi ha la famiglia o l’uomo che la segue riesce ad affrontare certe cose con serenità e a ricaricarsi, come fa Lara, che mi dice che la cosa più importante per lei è la sua famiglia. E la capisco, perché ha una famiglia bellissima.

Tuttavia ieri, ad En Sokhna, al mare, Nick ha riassunto la questione con un “WFP life is not done for families”. Famiglie infelici, coppie sfaldate, bambini irrequieti, distanze. Anche questo è vero. Al mare abbiamo anche incontrato Diana ed Egidio. Anche lei è esausta di questa vita, tanto più che le attuali politiche UN, di rotazione ogni quattro anni, non ti lasciano proprio un attimo di respiro. Per i giovani poi, ovviamente, c’è l’ulteriore aggravante dei contratti precari.  

[Ho preso anche un po’ di sole. Eravamo stese in bikini io e Liliana. Passa un bambino arabo e ci grida “sharmuta, sharmuta, sharmuta”. “Puttana, puttana, puttana”.]


Un altro motivo è che bisogna avere un altro tipo di approccio. Meno sentimentale-emotivo del mio, e più semplicemente operativo. Non dico che bisogna crederci meno, o essere più cinici. Semplicemente, forse, essere un po’ meno riflessivi. Io a fare questa vita certe volte sto male, e sto male pure per gli altri. Non riesco ad accettare certe cose, non riesco a guardare questi bambini, non riesco a lasciarmeli dietro quando chiudo la porta di casa; e non riesco a credere in questa battaglia stando da sola.
 
A volte mi guardo intorno e mi domando come sono. E non ci credo più. Non è il lavoro, non è più il lavoro…non è il lavoro più o meno bello che cambierà o che mi renderà felice, perché le mancanze che ho riposano su un altro piano. Ho capito che il tempo è finito per buttare tutto sul lavoro. E poi mi sento una mancanza affettiva enorme…non so come farei a colmare questo vuoto se non ci fossero le mie amiche ora. O forse ora che ho raggiunto questa tranquillità riuscirò di nuovo ad amare. Ma nessuno mi attira abbastanza.

Voglio seguire me stessa, ritrovare la capacità di ascoltare le mie emozioni, perché per tanti anni ho staccato la spina e ora non ricordo più da che parte vada attaccata, e non so più come fare ad entrarci in contatto. 

[Si veda anche il post Una vita a metà e Molteplici vite]

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