[Per una visione completa della vicenda, leggasi prima L'idraulico (commedia degli equivoci)]
25 giugno 2008
Sono le 21.30 e sto chattando con un amico che mi chiede se e quando tornerò in Italia per la pausa estiva e se riusciremo a vederci. Devo ancora finire di fare le valigie perché ho l’aereo per Roma proprio l’indomani mattina. Suonano alla porta.
Che sia Ahmed? Strano, lui mi chiama sempre prima di passare. Guardo nello spioncino e l’unica cosa che distinguo è una maglia verde acido. Non sembra Ahmed. Non apro, anche perché sono in cannottiera e pareo. Poi penso che potrebbe essere il ragazzo dell’immondizia. Domattina parto in Italia per due settimane e mi spiacerebbe pagargli il mese in ritardo. Mi infilo quindi un paio di pantaloni, torno alla porta e guardo: la figura è ancora lì, all’altezza dell’ascensore, quindi lontana; posso aprire senza pericolo.
Non ci posso credere, è il ragazzo camerunense, l’”idraulico”!! La polizia gli aveva già intimato di non farsi più vedere nei paraggi, e gli avevo risparmiato una denuncia che lo avrebbe fatto rispedire in Camerun, non senza passare prima per le carceri egiziane – che non è bello.
Sbatto la porta, metto sbarra, catena e due giri di chiave. Lui grida “madmoiselle, je vous enprie!! Attendez!”.
***
Oggi pomeriggio stavo tornando a casa passando per Via Ahmed Sabry, davanti alla chiesa di San Giuseppe (la stessa in cui Magdi Cristiano Allam si è convertito), di fronte casa mia. Qualcuno mi saluta in francese alle mie spalle: “Bonjour Margot”. Ho pensato fosse Flavien, un mio amico francese, e mi sono voltata. E invece era il camerunense. Ho sgranato gli occhi con aria irritata e mi sono rigirata affrettando il passo, ignorandolo. “Madmoiselle, je vous enprie!” – continua, ma io non mi giro.
Entrata nell'atrio di casa, poche decine di metri dopo, ho detto a Milad “Camerun – come lo chiamano loro - henek!” (Il camerunense è qui!). Lui ha ruotato la mano all’altezza della tempia, nel loro gesto consueto, pronunciando una parola che avrà voluto dire “pazzo”. Nelle ultime settimane Milad e Attif mi hanno detto infatti almeno quattro volte che lui ha cercato di entrare e salire per le scale, ma loro sono riusciti a rispedirlo ogni volta. Oggi apparentemente è riuscito a non farsi vedere!
***
Sono chiusa in casa. Non ho il numero della polizia e anche se lo avessi non saprei come comunicare! Mentre cerco di chiamare Liliana sento del trambusto sul pianerottolo, la voce di Milad e di un altro uomo.
Mi butto uno scialle sulle spalle e apro la porta. Milad è salito con lo stesso poliziotto dell’altra volta! Bravo Milad. Lo sguardo del poliziotto è eloquente: “che devo fare questa volta? Lo porto dentro o di nuovo no?”. Esito, so che non ho molto tempo dato il precedente. Dico sì. Questa volta ho avuto paura, e la sua possibilità glie l’avevo già data. Non mi devo sentire in colpa.
Al mio annuire il ragazzo si lascia sfuggire un gesto di rassegnazione e stizza, rotando gli occhi verso l’alto. Mi dispiace, perché non so cosa gli faranno, mi sento male, ma io devo pensare a me. Solo che ora non so cosa questa denuncia comporti…mi chiederanno documenti, dove lavoro, metteranno in mezzo il mio ufficio? Non voglio che si sappia. Chiudo la porta sperando con poca convinzione che quella serata si sarebbe conclusa lì. Ma immancabilmente dopo pochi minuti…risuonano alla porta.
Apro e vedo il noto convoglio di bauab (i portieri) del quartiere. Ormai la trafila la conosco. Si fanno tradurre dall’arabo da qualcuno dall’altra parte del telefono e mi informano che sarei dovuta andare con loro in questura in quel preciso istante. No… Mi cala lo sconforto e mi sento spersa. Come in questura – certo in questura – chiaro. Ma a fare che? No, non ci voglio andare, da sola. E poi è tardi, la valigia, il taxi, il volo… Prendo tempo congedando momentaneamente il corteo con la scusa di dovere andare a cambiarmi – tutti annuiscono in coro. Nella foga mi infilo la prima maglietta che trovo – e di cui di lì a poco mi sarei pentita.
Chiamo subito Elia, il mio professore di arabo, per chiedergli se per favore potesse venire con me; il “tribunale popolare” lo conosce già e mi farebbe sentire più sicura. Lui era con la sua ragazza russa in visita, con cui aveva litigato per tre giorni di fila, perciò non solo inizia a urlarmi contro che me la sono cercata e che sono un’incosciente perché avrei dovuto denunciarlo la volta prima, ma anche a farmi terrorismo psicologico, su quello che si legge quotidianamente sui giornali, di donne accoltellate e violenze di tutti i tipi. Ti prego Elia… Ok, arriva, ci saremmo incontrati per strada.
Quindi esco da sola, in coda alla processione di bauab – compreso Milad - desiderando di scomparire. Le strade di Zamalek sono ancora popolate, c’è il solito baccano, il caldo appiccicoso e tutti ci guardano. L’avventura in questura al Cairo decisamente mi mancava.
Appena all’esterno mi rendo conto dell’infelice scelta di vestiario. Non ho trovato niente di meglio, per sostituire la canottiera, di infirlarmi una maglietta fucsia scollata col collo tipo barchetta e delle “mezze maniche”, per così chiamarle, che appena coprivano metà spalla - ma come mi è saltato in mente…e perché non ho preso lo scialle, ci mancava solo questa per completare la vergogna.
Subito dopo informo Liliana della mia destinazione, dove mi raggiungerà il prima possibile. Per ingannare l’attesa durante questa marcia, e in preda a dilemmi lavorativo-diplomatici, penso bene di chiamare Amir, il nostro security officer per spiegargli la situazione. Mi scuso per l’orario, perché erano tipo le 23 passate, e lui mi dice che non c’è problema, che è in palestra e che si precipiterà lì. Wow, penso, Amir va anche in palestra.
Il piccolo ufficio di polizia di quartiere è circondato da soldati. Noi attendiamo che ci facciano entrare, mentre Liliana mi raggiunge. Sono la sola donna, nemmeno a specificarlo, e mi sento nuda, tanto per cambiare.
***
Entriamo in una saletta un po’ più piccola di un’aula scolastica. L’atmosfera è un misto tra un poliziesco anni ’70 e immagini offuscate d’infanzia. I mobili sono scuri, vecchi, di colore marrone o grigio, di metallo o formica e le pareti sono umide e annerite. Un grande tavolo su un lato, dietro il quale si mettono due giovani ufficiali; due file di sedie lungo la lunghezza della sala; degli armadietti metallici fatiscenti nel lato opposto; l’immancabile foto del Raìs di venti anni più giovane.
Io e Liliana veniamo fatte sedere su alcune sedie lungo la parete. Di fronte a noi, dall’altro lato della stanza, siedono Milad, un altro bauab, e il ragazzo. Elia è in piedi e vocifera con gli ufficiali.
Milad è malato. Già a casa non aveva una bella cera, ma ora è proprio peggiorato; ha freddo ed è sempre più giallo in volto. Mi fa tanta pena, prima di tutto perché sta male e si vede che a fatica si regge in piedi; in secondo luogo perché si vede che è intimidito dal contesto e – così come è per la povera gente – seppur non abbia fatto nulla si sente vulnerabile di fronte alla legge e teme di poter essere accusato di qualche cosa. Lo invito più volte ad andare a casa, ma risponde sempre di no.
Il ragazzo camerunense è seduto proteso in avanti, con i gomiti sulle ginocchia, e continua a guardarmi con sguardo fisso e tagliente, incessantemente. Mi fa paura. Penso a cosa gli faranno o alle possibili ritorsioni nei miei confronti se fosse lasciato libero. E se poi continua a venirmi a cercare? E se riesce ad eludere la sorveglianza e ad aspettarmi nascosto nel pianerottolo per vendicarsi? Del resto fino a questo momento non mi ha fatto alcun male mentre sono io a metterlo nei guai! Penso che sto forse andando troppo oltre, che dovrei ritirare tutto, ma ormai sono in ballo, e Liliana mi ricorda di come sia stato lui ad esagerare, e ripetutamente. Non riesco a guardarlo negli occhi.
Il clima è torrido e teso, è mezzanotte passata, la mia testa continua nelle sue evoluzioni mentali disastrose e io vorrei finire il più in fretta possibile. Improvvisamente, la lunga e inspiegabile attesa viene interrotta da una figura imponente che irrompe trafelata nella sala. Io e Liliana strabuzziamo gli occhi. Entrambe ricolleghiamo. Io rimango di sasso mentre Liliana scoppia in una risata fragorosa – non molto apprezzata dal mio amico camerunense, che assume un’espressione interdetta e quasi offesa. A grandi falcate, a dirigersi verso di noi è Amr. Il personal trainer di Liliana. Amr, non Amir.
Amr è un ragazzone di un 1,85 m per almen o 90 kg di muscoli, tanto grande quanto gentile e disponibile. Io non vi sono in particolare confidenza a parte salutarlo in palestra, ma pochi giorni fa mi aveva chiesto di uscire e lasciato il suo numero di telefono. Nell’agitazione avevo confuso i nomi e chiamato la persona sbagliata…che mai avrei voluto sapesse di certi anfratti incasinati della mia vita personale…e che ora avevo il terrore potesse riferirlo en passant ad Ahmed, per giunta! Volevo seppellirmi.
Io abbozzo qualcosa di molto più simile a un ghigno e poi oscillo tra la voglia di ridere e piangere. Liliana aiuta a chiarire l’equivoco, per lo meno a Elia, mentre il resto degli astanti ci fissa esterefatto. Amr ride anche lui sollevato, e la sua presenza non viene per nuocere essendo lui giurista di formazione. Nel paradosso delle risa però il mio senso di colpa e di disagio non fa che salire.
Intanto Elia aveva spiegato ai poliziotti l’accaduto senza che io avessi avuto alcun controllo sulla sua versione. Avendo paura delle sue esagerazioni, insisto perché mi informi del suo resoconto. In effetti, gli ufficiali insistono più volte con me per chiarire cosa ci sia effettivamente stato, e io sottolineo come il ragazzo non mi abbia toccata e men che meno abbia mosso alcuna violenza. La condanna e il trattamento in carcere potrebbero diventare pericolosi in casi del genere, a maggior ragione siccome lui è clandestino, senza permesso di soggiorno.
Vogliono che io rilasci una dichiarazione scritta dell’accaduto, e io, Liliana e Amr stendiamo a tre una paginetta in inglese cercando di rendere inequivocabili certi aspetti. Intanto Elia, alquanto surriscaldato già dall’inizio, se ne era andato a a casa, con mio sollievo.
“Perfetto, ora dobbiamo stendere il verbale” – dice un ufficiale. Ovviamente non c’è traccia di computer e l’ufficiale, calmo e professionale, si appresta a redigere a penna un verbale di due paginette protocollo. Io gli siedo di fronte e scrivo su un foglio di carta i miei dati affinché lui li possa copiare, facendomi venire poi la paranoia che il ragazzo avesse potuto in seguito vederli e registrarli mentalmente.
L’originale è terminato - sempre senza che io vi abbia alcun controllo – e voglio che tutto finisca in fretta. “Prima di terminare bisogna farne due copie”. Va bene, due fotocopie e via - penso. Ma ovviamente non vi è traccia di fotocopiatrice. Dopo avere ricopiato a mano le due copie ci dicono che noi possiamo andare, mentre sia Milad che il ragazzo devono ancora restare là per testimoniare. Chissà poi se a lui gli daranno possibilità di parlare o cosa.
Chiamo Milad fuori, e gli allungo una lauta mancia per il disturbo e la malattia. Sono quasi le due di notte. Io e Liliana ci guardiamo in faccia ripetendoci per l’ennesima volta: “Questa è un’altra storia egiziana!!”.
Amr mi accompagna a casa in macchina. Ho abbastanza adrenalina per terminare le valigie, prima di lasciarmi assopire per qualche ora dal caldo paralizzante della mia camera.
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