Per tornare a casa da Baharia Ezz ci ha messo a disposizione un taxi. L’autista – un uomo grasso dagli occhi porcini e la bocca paralizzata in un sorriso triangolare – si era fatto accompagnare dal figlio, un ragazzetto decisamente poco sveglio e po’ strabico.
I due avevano un che di inquietante. L’autista non ci guardava mai negli occhi, ma ogni volta incrociavo il suo sguardo obliquo nello specchietto retrovisore. Ripeteva sempre le stesse quattro parole in inglese, e poi scoppiava in una risata isterica e troppo forte.
Durante la sosta all’unico bar esistente nella strada che collega il Cairo con Baharia, incontriamo i due ragazzi tedeschi e la loro guida, Omar. Io e Anna oltre ad andare in “bagno” (latrina nera e maleodorante invasa di mosche e senza acqua corrente, che abbiamo evitato in favore delle dune del retrobottega), volevamo prenderci qualcosa da bere. Ci sediamo al tavolo con Omar, ma i nostri autisti però, e non capiamo il perché, volevano ripartire subito e cominciano a metterci pressione anche abbastanza sgarbatamente.
Noi abbiamo continuato a bere con calma il nostro drink. Solo dopo, pensando a che, di fatto, se ne erano andati con le nostre cose ed erano già stati pagati, comincia a salirmi un po’ di ansia. Li abbiamo inseguiti ma siamo riusciti a raggiungerli solo alla fine, al punto d’incontro stabilito.
Arrivate sotto casa ha pure allungato la mano con fare lamentoso ed elemosinante. Io la mancia non glie l’ho data. Il suo sorriso viscido è svanito in un attimo e ha continuato a lamentarsi dal finestrino. Non me ne frega, mi hai fatto fare un viaggio d’inferno e andare di traverso la coca-cola, ridendo istericamente per tutto il tempo oltre ad averci fotografato e spiato per tutto il tempo dallo specchietto retrovisore.
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